Recensione
Yakuza 5
9.0/10
Recensione di Metaldevilgear
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Prima che il buon Gio Corsi, direttore delle produzioni di terze parti per Sony, ne annunciasse ufficialmente la data di rilascio al PlayStation Experience 2015, con tanto di trailer definitivo e sorpresona in omaggio (un Yakuza Zero in lingua comprensibile entro il 2017), una buona parte di noi giocatori occidentali avevamo quasi perso le speranze: non solo quella di riuscire a mettere mano al quinto ed ultimo tassello del franchise pensato per old-gen (spin-off esclusi), ma anche quella di una qualsiasi ulteriore localizzazione americana/europea.
Alla fine la tenacia di quel zoccolo duro di fan, emersa dapprima in una serie di petizioni non ufficiali, e impostasi poi in modo schiacciante nella campagna #BuildingTheList, lanciata da Sony stessa per accogliere le richieste dei videogiocatori, era stata premiata: Ryū ga Gotoku 5, ovvero Yakuza 5, sarebbe sbarcato da noi l’8 dicembre su PlayStation Store, in tempo per metterlo sotto l’albero, o ad essere precisi, metterci proprio la console, non potendo di fatto fruire di una copia fisica del gioco.
Una condizione non contrattabile, quella del formato unicamente digitale, alleggerita in parte dallo sconto sul prezzo, ma ugualmente difficile da mandare giù, a fronte dei tre anni di ritardo rispetto alla release nipponica, delle ingenti dimensioni e tempistiche d’installazione, e dell’impossibilità di colmare quel fastidioso buco nello scaffale senza dover ricorrere all’import. Parliamo comunque di limitazioni in termini di comodità, non di esperienza videoludica, la quale - si rassicurino i fan – rispetta ampiamente le previsioni, facendone, probabilmente, il migliore della saga per giocabilità ed intensità narrativa.
Si è trattato per molti, tutto sommato, di un gran bel regalo natalizio, e chi avrà avuto modo di “scartarlo” proprio in concomitanza delle festività, ne avrà giovato particolarmente, per il fatto che gli eventi di gioco si collocano proprio intorno al Natale (non una novità per la saga).
Difatti il senso d’immersione, garantito anche stavolta dalla consueta perizia nel riprodurre fedelmente le varie località giapponesi, è qui accresciuto al massimo, al punto da ritenersi già di per sé un incentivo ad avvicinarsi al titolo, che può assurgere al rango di miglior guida turistica virtuale del Giappone mai vista su console. Il numero di distretti visitabili ammonta a ben cinque, suddivisi tra altrettante prefetture: si passa da Fukuoka, con i suoi fiumiciattoli e ristorantini fatiscenti, alla più “invernale” Sapporo col suo celebre Festival della neve, poi ad Osaka (già introdotta in Yakuza 2), con le sue decine e decine di negozietti, alla più urbana Nagoya (prefettura di Aichi), ed infine a Tōkyō in quel di Kamurochō (alias Kabukichō), la “casa dolce casa” di chi vi ha messo piede per la prima volta nell’ormai lontano 2005. Le aree percorribili completamente nuove sono dunque tre, cui vanno aggiunte l’ “escursione montana” nella prima metà del gioco, più altre location minori. Sparisce dunque Okinawa, per lecite ragioni narrative; spiace un po’ invece per l’omissione di alcuni livelli di Kamurochō esplorabili in Yakuza 4, come i vicoli “cinesi”, i tetti degli edifici e una parte della rete sotterranea. L’estensione delle mappe, insieme alle peculiarità sia folcloristiche sia paesaggistiche che arricchiscono ognuna di esse, fanno dell’ambientazione un’inamovibile protagonista aggiunta, forse come mai prima d’ora.
D’altronde la scelta di ogni città è propedeutica ad un atto della trama, e all’inserimento nella stessa di ognuno dei cinque personaggi che potremo comandare. Quattro di questi sono vecchie conoscenze, un paio delle quali presentatesi sotto una nuova veste: l’indiscusso protagonista Kazuma Kiryū, che avanzando di età sembra acquisire sempre più carisma (un po’ alla Solid Snake), pare essersi lasciato alle spalle le faccende criminose che lo inchiodavano al clan Tōjō-kai, per darsi alla carriera di tassista sotto una nuova identità, in un’altra regione. Ma ci sarà davvero riuscito? E cosa l’avrà spinto ad allontanarsi dall’orfanotrofio di Okinawa, dove dimorava quella che ormai considerava la sua vera famiglia? Lo scopriremo una volta calatici nei panni di Haruka Sawamura (per la prima volta giocabile), partita anch’essa, in direzione Osaka, nel tentativo sfondare come pop idol; ritornano infine a farci compagnia l’ “usuraio generoso” Shun Akiyama, e il poderoso Taiga Saejima, icona sempre più rilevante nell’albero genealogico di Yakuza; il vero volto nuovo nel cast dei “buoni” è quello di Tatsuo Shinada, trasandato scapolo trentasettenne ed ex giocatore professionista di baseball, che risiede sul tetto di un edificio di Nagoya, tira a campare scrivendo articoli per riviste adulte, ed è perennemente in debito con un po’ di gente, tra cui l’amico-aguzzino Takasugi (al quale l’attore Shō Aikawa, presenza fissa nel V-Cinema di Miike, ha prestato volto e voce). A ridurlo in questo stato fu uno scandalo sportivo che, manco a dirlo, ritornerà alla luce per andare a costituire un pezzo determinante nel complesso puzzle degli eventi. Trattasi indubbiamente di una new entry gradita, una figura che, forte della sua semplice umanità, del suo essere un “pesce fuor d’acqua”, conquista fin da subito e getta una reale ventata d’aria fresca nel cast della serie.
Vien d’obbligo aspettarsi che i destini dei sopracitati, al fianco di comprimari ugualmente degni di nota, vadano man mano ad incrociarsi. Come avvenga questo intreccio, lo si lascia scoprire a voi, ed anche se gli appassionati sapranno già cosa aspettarsi in termini di storytelling – i deus ex machina e le esagerazioni tipicamente orientali non si contano – state certi che non mancheranno risvolti imprevedibili, e che giunti alle fasi finali sarete travolti da un turbinio di emozioni.
In definitiva la sceneggiatura può dirsi riuscita in più traguardi. Quello di aver replicato, e in parte superato, la miracolosa densità di fatti e personaggi rilevata in Yakuza 4; l’aver mantenuto intatto, seppur coi suoi cliché, il fascino narrativo che è esclusivo di questo universo; ma soprattutto, quello di veicolare qualcosa di significativo in maniera più profonda che in passato, con la ricorrenza di un concetto che riguarderà indistintamente main characters, villains, finanche i meri cittadini con cui interagiremo: il perseguimento di un sogno non muore al suo raggiungimento, tantomeno con la sua rottura, per quanto irreversibile sia; i nostri sogni si trasmettono a chi ci circonda, cosicché sopravvivano dentro di noi.
Se già la trama è da ritenersi, per consistenza, sopra la media, è quando veniamo al gioco vero e proprio che il fattore quantitativo si eleva a livelli davvero impressionanti. Giusto per iniziare a darvi un’idea, il sottoscritto ha posato (momentaneamente) il controller con un 63% di completamento, per una durata di circa 145 ore (a livello hard): numeri da gioco di ruolo o da free-roaming, entrambe tipologie che Yakuza non ha mai nascosto di emulare. Queste statistiche sono naturalmente soggettive, ma altresì frutto di un approccio di gioco quanto più equilibrato possibile. Volendo, ci si potrebbe gettare a capofitto nello story mode, ciò non togliendo che s’incontrerebbero difficoltà molto maggiori nel proseguimento, come per qualsiasi titolo con elementi ruolistici. Far livellare i protagonisti è come sempre essenziale, e per garantire loro un parco mosse adeguato all’avanzamento, non bastano i punti esperienza ottenuti mediante le fasi beat ‘em up o l’interazione con i passanti in cerca d’aiuto - che restano, sia ribadito, il fulcro del gameplay. Molti dei potenziamenti più succosi si conseguono tramite gli allenamenti assegnatici da uno specifico Master, o mediante le cosiddette Revelations. Tra queste tecniche spiccano quelle relative alla Climax Gauge, una nuovissima barra di riempimento che consente l’esecuzione di colpi finali devastanti e va dunque ad affiancarsi alla ormai consolidata Heat Gauge. Quest’ultima non è esente da innovazioni, in quanto serve non più unicamente ad azionare le classiche Heat Actions (ne sono 125), ma anche le Ultimate Moves, abilità proprie di ogni combattente: ad esempio Saejima potrà sollevare oggetti di peso e dimensioni considerevoli (come motorini, segnali stradali, ecc.) e scagliarli addosso ai nemici. Con un ventaglio così ampio e variegato di mazzate, viene definitivamente meno il rischio di abbandonarsi, a lungo andare, alla svogliata pressione dei soliti tasti in mancanza di mosse nuove da provare. Un’altra innovazione applicata al sistema di potenziamento, chiamata Gourmet, permette di incrementare temporaneamente forza e stamina, a seconda del tipo di pietanza consumata.
Per quanto riguarda gli equipaggiamenti, ritorna la possibilità di creare svariati tipi di armi e protezioni (fino a un totale di 115 pezzi), unita a un sistema di crafting però abbastanza basilare.
A fornire un ulteriore e inedito mezzo per guadagnare exp e denaro, è un gruppo più articolato di quest secondarie, che poi tanto secondarie non sono, poiché, come ne suggerisce il nome, vanno praticate parallelamente alla storyline principale: sono le Side Stories. Nei panni di Kazuma, anzi, Taichi Suzuki, ci toccherà svolgere le regolari mansioni di un comune tassista tra i vicoli di Nagasugai... Oppure potremo preparare il nostro bolide per gareggiare in autostrada (e in clandestinità), a colpi di derapate ed Eurobeat, in pieno omaggio a Initial D; A Taiga spetteranno invece estenuanti e pericolose sessioni di caccia tra le lande innevate dell’Hokkaidō, i cui proventi (cibo, pelli) saranno fonte di sostentamento; Tatsuo, logicamente, riprenderà in mano la mazza da baseball raccogliendo sfide su sfide al centro sportivo di allenamento.
La portata a termine di queste sottotrame è invogliata soprattutto dalle variazioni che recano con sé a livello di meccaniche, che per quanto siano molto semplici e di stampo arcade, rappresentano un’alternativa piacevole al reiterato sistema delle Substories.
La più completa e divertente di esse è ad ogni modo The Road to Fame, che interessa Shun (sebbene in piccolissima parte) e la sedicenne Haruka: il tempo impiegato con lei non è mai sprecato e non ci si annoia un secondo. Un po’ grazie al valore affettivo che ci lega a questa “figlia adottiva” virtuale di cui abbiamo letteralmente seguito la crescita, e un po’ per la singolarità della situazione, che ci vedrà indaffarati tra concerti, lezioni di canto e ballo, incontri con i fan, interviste, apparizioni televisive, e così via. Allo staff va dato un plauso per aver integrato brillantemente questa sezione: così ben curata da sembrare quasi un gioco a se stante, ma allo stesso tempo, pienamente in linea con lo spirito della serie.
Quel che resta delle attività disponibili, al di fuori delle missioni e delle trovate da rhythm game, è un insieme smisurato di idee riproposte in veste leggermente migliorata, ed altre pensate appositamente per il contesto di questo episodio. Tra le prime, ricordiamo le immancabili hostess (una per ciascun distretto), il leggendario colosseo, usualmente accessibile dal Purgatorio, la raccolta delle chiavi degli armadietti, e via dicendo; le novità assolute spaziano in prevalenza tra minigiochi di tipo esplorativo, o caratteristici dei diversi luoghi (ad es. a Fukuoka potremo gestire un chioschetto di ramen, ad Osaka esibirci in un tipico duetto comico “manzai”).
Tale abbondanza di occasioni di svago contribuisce alla resa di scenari brulicanti di vita, che sia giorno, pomeriggio o notte (ciclo non ancora automatico), merito peraltro di una direzione artistica coi fiocchi, che sa come colpire al cuore qualsiasi nippofilo.
Ci mette del suo anche un motore grafico che si comporta degnamente (gira su PlayStation 3 e su disco rigido, ricordiamolo), vantando un buon sistema d’illuminazione, cali di frame rate molto meno frequenti, slittamenti d’immagine del tutto eliminati e una riduzione dei caricamenti che ha snellito le street fight; meno entusiasmante è la riproposizione di alcune imperfezioni storiche che concernono la gestione della fisica, delle texture e degli elementi su schermo. Analogamente il gameplay è conteso tra evitabili pecche e lievi migliorie. Sacrosanta è la scelta di contrassegnare finalmente sulla mappa le missioni secondarie, indicate da punti interrogativi/esclamativi: un soccorso giunto tardivamente, che speriamo sarà seguito dalla possibilità, mai ancora considerata, di impostare manualmente una meta. È stata anche rimossa la comodità di zoomare sulla mini-mappa nell’angolo basso sinistro della schermata, rendendo inevitabile l’apertura del menù di pausa nei momenti di disorientamento. Altre magagne rendono talvolta stressanti l’esplorazione e gli spostamenti. Anzitutto le zuffe da strada hanno una cadenza fin troppo elevata, e i metodi per evitarle non sono così efficaci: i teppisti adesso sono riconoscibili tramite un cursore, e basta rallentare il passo in loro presenza, per evitare rogne; il problema è che ne incontreremo troppi, e la camminata è un mezzo alquanto soporifero per farsi un tratto di strada. Esistono comunque degli amuleti che dovrebbero, in teoria, ridurne la frequenza, ma in pratica, la eliminano totalmente. Non vi è quindi una via di mezzo che consenta sia di perlustrare che di livellare in maggiore tranquillità.
Un altro ostacolo è fornito nientemeno che dai pedoni: va bene riempire le vie di abitanti per conferire all’ambiente realismo e vitalità, ma calibrarne meglio il flusso, almeno nei passaggi più angusti, non avrebbe guastato. E a proposito di spazi, un altro tallone d’Achille, forse il più brutto a vedersi, è quello dei muri invisibili, spesso e volentieri piazzati goffamente in aree completamente sgombre, oppure per circoscrivere i campi di battaglia: caso perdonabile, quest’ultimo, finché non ci si trova a sfruttare il rimbalzo di avversari lanciati contro superfici fatte di aria. Restando in tema di combattimenti, le telecamere possono risultare scomode da domare; e infine, restare in vita dopo spari in petto e coltellate nello stomaco, suscita sempre un sorriso agrodolce, ma solo perché in fondo ci abbiamo fatto l’abitudine.
Una componente grazie alla quale Ryū ga Gotoku ha potuto contare pochi rivali su old gen, è sempre stata quella cinematografica, resa al meglio dall’amalgama di tre cose in particolare, ossia le numerose cutscene, un impianto sonoro di ragguardevole fattura e una sapiente regia generale. Nessuno di essi è mancato a questo appuntamento. I filmati andrebbero gustati insieme a una razione di popcorn. La CGI è utilizzata estremamente bene e il suo fiore all’occhiello è, come da routine, il realismo facciale dei modelli 3D. L’audio riveste un’importanza prominente, è molto più partecipe: si nota subito per la quantità superiore al normale di dialoghi doppiati. Le fredde righe di testo sono confinate alle conversazioni marginali, mentre tutti i segmenti che hanno a che fare col plot sono recitati. Stesso trattamento è dedicato alle signorine degli hostess club, il che ci permette di percepirne meglio il carattere, l’umore, nonché udirne i distintivi dialetti, a seconda della provenienza. Le voci sono sempre accompagnate dalla sincronizzazione labiale e da una mimica convincente. I seiyū chiamati in causa, tra veterani del progetto (ad es. Rie Kugimiya, Takaya Kuroda, Hidenari Ugaki), nomi inediti (ad es. Romi Park, Toshiyuki Morikawa), e camei di attori prestigiosi (ad es. il già citato Aikawa, Eiji Okuda, Mitsuru Fukikoshi), vanno a comporre un cast di prim’ordine.
Nell’altrettanta attenzione rivolta all’aspetto musicale si realizza pienamente quell’importanza di cui si parlava, quell’adesione concreta della componente sonora alle esigenze di racconto e di gameplay. L’innesto portante del genere j-pop, che prima d’ora ci era concesso ascoltare in qualche uscita al karaoke, insieme con l’immancabile selezione di brani rock/elettronici dai riff spaccasassi, consacrano un felicissimo collage di sonorità, che tocca il suo apogeo a ridosso dell’epilogo.
Nei momenti più alti di Yakuza 5, in corrispondenza delle adrenaliniche boss fight, con l’ausilio del bel comparto audiovisivo e di spettacolari sequenze scriptate, appone la sua riconoscibile firma l’inarrestabile game director Toshihiro Nagoshi, che a quanto pare non ha ancora dimenticato cosa voglia dire fare emozionare con un videogioco.
L’ultima esclusiva PlayStation 3 di uno dei brand più fortunati di SEGA può considerarsi, almeno per l’Occidente, uno dei canti del cigno della sua generazione di console. Il quinto capitolo dell’erede spirituale di Shenmue è un’opera mastodontica e sfaccettata, che accusa marginalmente il bisogno di uno svecchiamento (a quello ci penserà Yakuza 6), insieme alla sfortuna di essere un titolo di nicchia, destinato in primo luogo ai sostenitori più fedeli.
Agli aficionados non va ripetuto due volte: è imperdibile, il più divertente, il più completo. Nell’attesa del già annunciato prequel Yakuza 0 per PS4, e nella speranza che faccia il suo arrivo Kiwami (remake del primo, splendido lavoro per PS2), si ripongono le chance per una nuova e meritata salita alla ribalta.
Alla fine la tenacia di quel zoccolo duro di fan, emersa dapprima in una serie di petizioni non ufficiali, e impostasi poi in modo schiacciante nella campagna #BuildingTheList, lanciata da Sony stessa per accogliere le richieste dei videogiocatori, era stata premiata: Ryū ga Gotoku 5, ovvero Yakuza 5, sarebbe sbarcato da noi l’8 dicembre su PlayStation Store, in tempo per metterlo sotto l’albero, o ad essere precisi, metterci proprio la console, non potendo di fatto fruire di una copia fisica del gioco.
Una condizione non contrattabile, quella del formato unicamente digitale, alleggerita in parte dallo sconto sul prezzo, ma ugualmente difficile da mandare giù, a fronte dei tre anni di ritardo rispetto alla release nipponica, delle ingenti dimensioni e tempistiche d’installazione, e dell’impossibilità di colmare quel fastidioso buco nello scaffale senza dover ricorrere all’import. Parliamo comunque di limitazioni in termini di comodità, non di esperienza videoludica, la quale - si rassicurino i fan – rispetta ampiamente le previsioni, facendone, probabilmente, il migliore della saga per giocabilità ed intensità narrativa.
Si è trattato per molti, tutto sommato, di un gran bel regalo natalizio, e chi avrà avuto modo di “scartarlo” proprio in concomitanza delle festività, ne avrà giovato particolarmente, per il fatto che gli eventi di gioco si collocano proprio intorno al Natale (non una novità per la saga).
Difatti il senso d’immersione, garantito anche stavolta dalla consueta perizia nel riprodurre fedelmente le varie località giapponesi, è qui accresciuto al massimo, al punto da ritenersi già di per sé un incentivo ad avvicinarsi al titolo, che può assurgere al rango di miglior guida turistica virtuale del Giappone mai vista su console. Il numero di distretti visitabili ammonta a ben cinque, suddivisi tra altrettante prefetture: si passa da Fukuoka, con i suoi fiumiciattoli e ristorantini fatiscenti, alla più “invernale” Sapporo col suo celebre Festival della neve, poi ad Osaka (già introdotta in Yakuza 2), con le sue decine e decine di negozietti, alla più urbana Nagoya (prefettura di Aichi), ed infine a Tōkyō in quel di Kamurochō (alias Kabukichō), la “casa dolce casa” di chi vi ha messo piede per la prima volta nell’ormai lontano 2005. Le aree percorribili completamente nuove sono dunque tre, cui vanno aggiunte l’ “escursione montana” nella prima metà del gioco, più altre location minori. Sparisce dunque Okinawa, per lecite ragioni narrative; spiace un po’ invece per l’omissione di alcuni livelli di Kamurochō esplorabili in Yakuza 4, come i vicoli “cinesi”, i tetti degli edifici e una parte della rete sotterranea. L’estensione delle mappe, insieme alle peculiarità sia folcloristiche sia paesaggistiche che arricchiscono ognuna di esse, fanno dell’ambientazione un’inamovibile protagonista aggiunta, forse come mai prima d’ora.
D’altronde la scelta di ogni città è propedeutica ad un atto della trama, e all’inserimento nella stessa di ognuno dei cinque personaggi che potremo comandare. Quattro di questi sono vecchie conoscenze, un paio delle quali presentatesi sotto una nuova veste: l’indiscusso protagonista Kazuma Kiryū, che avanzando di età sembra acquisire sempre più carisma (un po’ alla Solid Snake), pare essersi lasciato alle spalle le faccende criminose che lo inchiodavano al clan Tōjō-kai, per darsi alla carriera di tassista sotto una nuova identità, in un’altra regione. Ma ci sarà davvero riuscito? E cosa l’avrà spinto ad allontanarsi dall’orfanotrofio di Okinawa, dove dimorava quella che ormai considerava la sua vera famiglia? Lo scopriremo una volta calatici nei panni di Haruka Sawamura (per la prima volta giocabile), partita anch’essa, in direzione Osaka, nel tentativo sfondare come pop idol; ritornano infine a farci compagnia l’ “usuraio generoso” Shun Akiyama, e il poderoso Taiga Saejima, icona sempre più rilevante nell’albero genealogico di Yakuza; il vero volto nuovo nel cast dei “buoni” è quello di Tatsuo Shinada, trasandato scapolo trentasettenne ed ex giocatore professionista di baseball, che risiede sul tetto di un edificio di Nagoya, tira a campare scrivendo articoli per riviste adulte, ed è perennemente in debito con un po’ di gente, tra cui l’amico-aguzzino Takasugi (al quale l’attore Shō Aikawa, presenza fissa nel V-Cinema di Miike, ha prestato volto e voce). A ridurlo in questo stato fu uno scandalo sportivo che, manco a dirlo, ritornerà alla luce per andare a costituire un pezzo determinante nel complesso puzzle degli eventi. Trattasi indubbiamente di una new entry gradita, una figura che, forte della sua semplice umanità, del suo essere un “pesce fuor d’acqua”, conquista fin da subito e getta una reale ventata d’aria fresca nel cast della serie.
Vien d’obbligo aspettarsi che i destini dei sopracitati, al fianco di comprimari ugualmente degni di nota, vadano man mano ad incrociarsi. Come avvenga questo intreccio, lo si lascia scoprire a voi, ed anche se gli appassionati sapranno già cosa aspettarsi in termini di storytelling – i deus ex machina e le esagerazioni tipicamente orientali non si contano – state certi che non mancheranno risvolti imprevedibili, e che giunti alle fasi finali sarete travolti da un turbinio di emozioni.
In definitiva la sceneggiatura può dirsi riuscita in più traguardi. Quello di aver replicato, e in parte superato, la miracolosa densità di fatti e personaggi rilevata in Yakuza 4; l’aver mantenuto intatto, seppur coi suoi cliché, il fascino narrativo che è esclusivo di questo universo; ma soprattutto, quello di veicolare qualcosa di significativo in maniera più profonda che in passato, con la ricorrenza di un concetto che riguarderà indistintamente main characters, villains, finanche i meri cittadini con cui interagiremo: il perseguimento di un sogno non muore al suo raggiungimento, tantomeno con la sua rottura, per quanto irreversibile sia; i nostri sogni si trasmettono a chi ci circonda, cosicché sopravvivano dentro di noi.
Se già la trama è da ritenersi, per consistenza, sopra la media, è quando veniamo al gioco vero e proprio che il fattore quantitativo si eleva a livelli davvero impressionanti. Giusto per iniziare a darvi un’idea, il sottoscritto ha posato (momentaneamente) il controller con un 63% di completamento, per una durata di circa 145 ore (a livello hard): numeri da gioco di ruolo o da free-roaming, entrambe tipologie che Yakuza non ha mai nascosto di emulare. Queste statistiche sono naturalmente soggettive, ma altresì frutto di un approccio di gioco quanto più equilibrato possibile. Volendo, ci si potrebbe gettare a capofitto nello story mode, ciò non togliendo che s’incontrerebbero difficoltà molto maggiori nel proseguimento, come per qualsiasi titolo con elementi ruolistici. Far livellare i protagonisti è come sempre essenziale, e per garantire loro un parco mosse adeguato all’avanzamento, non bastano i punti esperienza ottenuti mediante le fasi beat ‘em up o l’interazione con i passanti in cerca d’aiuto - che restano, sia ribadito, il fulcro del gameplay. Molti dei potenziamenti più succosi si conseguono tramite gli allenamenti assegnatici da uno specifico Master, o mediante le cosiddette Revelations. Tra queste tecniche spiccano quelle relative alla Climax Gauge, una nuovissima barra di riempimento che consente l’esecuzione di colpi finali devastanti e va dunque ad affiancarsi alla ormai consolidata Heat Gauge. Quest’ultima non è esente da innovazioni, in quanto serve non più unicamente ad azionare le classiche Heat Actions (ne sono 125), ma anche le Ultimate Moves, abilità proprie di ogni combattente: ad esempio Saejima potrà sollevare oggetti di peso e dimensioni considerevoli (come motorini, segnali stradali, ecc.) e scagliarli addosso ai nemici. Con un ventaglio così ampio e variegato di mazzate, viene definitivamente meno il rischio di abbandonarsi, a lungo andare, alla svogliata pressione dei soliti tasti in mancanza di mosse nuove da provare. Un’altra innovazione applicata al sistema di potenziamento, chiamata Gourmet, permette di incrementare temporaneamente forza e stamina, a seconda del tipo di pietanza consumata.
Per quanto riguarda gli equipaggiamenti, ritorna la possibilità di creare svariati tipi di armi e protezioni (fino a un totale di 115 pezzi), unita a un sistema di crafting però abbastanza basilare.
A fornire un ulteriore e inedito mezzo per guadagnare exp e denaro, è un gruppo più articolato di quest secondarie, che poi tanto secondarie non sono, poiché, come ne suggerisce il nome, vanno praticate parallelamente alla storyline principale: sono le Side Stories. Nei panni di Kazuma, anzi, Taichi Suzuki, ci toccherà svolgere le regolari mansioni di un comune tassista tra i vicoli di Nagasugai... Oppure potremo preparare il nostro bolide per gareggiare in autostrada (e in clandestinità), a colpi di derapate ed Eurobeat, in pieno omaggio a Initial D; A Taiga spetteranno invece estenuanti e pericolose sessioni di caccia tra le lande innevate dell’Hokkaidō, i cui proventi (cibo, pelli) saranno fonte di sostentamento; Tatsuo, logicamente, riprenderà in mano la mazza da baseball raccogliendo sfide su sfide al centro sportivo di allenamento.
La portata a termine di queste sottotrame è invogliata soprattutto dalle variazioni che recano con sé a livello di meccaniche, che per quanto siano molto semplici e di stampo arcade, rappresentano un’alternativa piacevole al reiterato sistema delle Substories.
La più completa e divertente di esse è ad ogni modo The Road to Fame, che interessa Shun (sebbene in piccolissima parte) e la sedicenne Haruka: il tempo impiegato con lei non è mai sprecato e non ci si annoia un secondo. Un po’ grazie al valore affettivo che ci lega a questa “figlia adottiva” virtuale di cui abbiamo letteralmente seguito la crescita, e un po’ per la singolarità della situazione, che ci vedrà indaffarati tra concerti, lezioni di canto e ballo, incontri con i fan, interviste, apparizioni televisive, e così via. Allo staff va dato un plauso per aver integrato brillantemente questa sezione: così ben curata da sembrare quasi un gioco a se stante, ma allo stesso tempo, pienamente in linea con lo spirito della serie.
Quel che resta delle attività disponibili, al di fuori delle missioni e delle trovate da rhythm game, è un insieme smisurato di idee riproposte in veste leggermente migliorata, ed altre pensate appositamente per il contesto di questo episodio. Tra le prime, ricordiamo le immancabili hostess (una per ciascun distretto), il leggendario colosseo, usualmente accessibile dal Purgatorio, la raccolta delle chiavi degli armadietti, e via dicendo; le novità assolute spaziano in prevalenza tra minigiochi di tipo esplorativo, o caratteristici dei diversi luoghi (ad es. a Fukuoka potremo gestire un chioschetto di ramen, ad Osaka esibirci in un tipico duetto comico “manzai”).
Tale abbondanza di occasioni di svago contribuisce alla resa di scenari brulicanti di vita, che sia giorno, pomeriggio o notte (ciclo non ancora automatico), merito peraltro di una direzione artistica coi fiocchi, che sa come colpire al cuore qualsiasi nippofilo.
Ci mette del suo anche un motore grafico che si comporta degnamente (gira su PlayStation 3 e su disco rigido, ricordiamolo), vantando un buon sistema d’illuminazione, cali di frame rate molto meno frequenti, slittamenti d’immagine del tutto eliminati e una riduzione dei caricamenti che ha snellito le street fight; meno entusiasmante è la riproposizione di alcune imperfezioni storiche che concernono la gestione della fisica, delle texture e degli elementi su schermo. Analogamente il gameplay è conteso tra evitabili pecche e lievi migliorie. Sacrosanta è la scelta di contrassegnare finalmente sulla mappa le missioni secondarie, indicate da punti interrogativi/esclamativi: un soccorso giunto tardivamente, che speriamo sarà seguito dalla possibilità, mai ancora considerata, di impostare manualmente una meta. È stata anche rimossa la comodità di zoomare sulla mini-mappa nell’angolo basso sinistro della schermata, rendendo inevitabile l’apertura del menù di pausa nei momenti di disorientamento. Altre magagne rendono talvolta stressanti l’esplorazione e gli spostamenti. Anzitutto le zuffe da strada hanno una cadenza fin troppo elevata, e i metodi per evitarle non sono così efficaci: i teppisti adesso sono riconoscibili tramite un cursore, e basta rallentare il passo in loro presenza, per evitare rogne; il problema è che ne incontreremo troppi, e la camminata è un mezzo alquanto soporifero per farsi un tratto di strada. Esistono comunque degli amuleti che dovrebbero, in teoria, ridurne la frequenza, ma in pratica, la eliminano totalmente. Non vi è quindi una via di mezzo che consenta sia di perlustrare che di livellare in maggiore tranquillità.
Un altro ostacolo è fornito nientemeno che dai pedoni: va bene riempire le vie di abitanti per conferire all’ambiente realismo e vitalità, ma calibrarne meglio il flusso, almeno nei passaggi più angusti, non avrebbe guastato. E a proposito di spazi, un altro tallone d’Achille, forse il più brutto a vedersi, è quello dei muri invisibili, spesso e volentieri piazzati goffamente in aree completamente sgombre, oppure per circoscrivere i campi di battaglia: caso perdonabile, quest’ultimo, finché non ci si trova a sfruttare il rimbalzo di avversari lanciati contro superfici fatte di aria. Restando in tema di combattimenti, le telecamere possono risultare scomode da domare; e infine, restare in vita dopo spari in petto e coltellate nello stomaco, suscita sempre un sorriso agrodolce, ma solo perché in fondo ci abbiamo fatto l’abitudine.
Una componente grazie alla quale Ryū ga Gotoku ha potuto contare pochi rivali su old gen, è sempre stata quella cinematografica, resa al meglio dall’amalgama di tre cose in particolare, ossia le numerose cutscene, un impianto sonoro di ragguardevole fattura e una sapiente regia generale. Nessuno di essi è mancato a questo appuntamento. I filmati andrebbero gustati insieme a una razione di popcorn. La CGI è utilizzata estremamente bene e il suo fiore all’occhiello è, come da routine, il realismo facciale dei modelli 3D. L’audio riveste un’importanza prominente, è molto più partecipe: si nota subito per la quantità superiore al normale di dialoghi doppiati. Le fredde righe di testo sono confinate alle conversazioni marginali, mentre tutti i segmenti che hanno a che fare col plot sono recitati. Stesso trattamento è dedicato alle signorine degli hostess club, il che ci permette di percepirne meglio il carattere, l’umore, nonché udirne i distintivi dialetti, a seconda della provenienza. Le voci sono sempre accompagnate dalla sincronizzazione labiale e da una mimica convincente. I seiyū chiamati in causa, tra veterani del progetto (ad es. Rie Kugimiya, Takaya Kuroda, Hidenari Ugaki), nomi inediti (ad es. Romi Park, Toshiyuki Morikawa), e camei di attori prestigiosi (ad es. il già citato Aikawa, Eiji Okuda, Mitsuru Fukikoshi), vanno a comporre un cast di prim’ordine.
Nell’altrettanta attenzione rivolta all’aspetto musicale si realizza pienamente quell’importanza di cui si parlava, quell’adesione concreta della componente sonora alle esigenze di racconto e di gameplay. L’innesto portante del genere j-pop, che prima d’ora ci era concesso ascoltare in qualche uscita al karaoke, insieme con l’immancabile selezione di brani rock/elettronici dai riff spaccasassi, consacrano un felicissimo collage di sonorità, che tocca il suo apogeo a ridosso dell’epilogo.
Nei momenti più alti di Yakuza 5, in corrispondenza delle adrenaliniche boss fight, con l’ausilio del bel comparto audiovisivo e di spettacolari sequenze scriptate, appone la sua riconoscibile firma l’inarrestabile game director Toshihiro Nagoshi, che a quanto pare non ha ancora dimenticato cosa voglia dire fare emozionare con un videogioco.
L’ultima esclusiva PlayStation 3 di uno dei brand più fortunati di SEGA può considerarsi, almeno per l’Occidente, uno dei canti del cigno della sua generazione di console. Il quinto capitolo dell’erede spirituale di Shenmue è un’opera mastodontica e sfaccettata, che accusa marginalmente il bisogno di uno svecchiamento (a quello ci penserà Yakuza 6), insieme alla sfortuna di essere un titolo di nicchia, destinato in primo luogo ai sostenitori più fedeli.
Agli aficionados non va ripetuto due volte: è imperdibile, il più divertente, il più completo. Nell’attesa del già annunciato prequel Yakuza 0 per PS4, e nella speranza che faccia il suo arrivo Kiwami (remake del primo, splendido lavoro per PS2), si ripongono le chance per una nuova e meritata salita alla ribalta.