Recensione
Brother
8.0/10
"Brother" è un film del 2000 diretto e interpretato da Takeshi Kitano, nei panni dello yakuza Yamamoto.
Il capo del clan di cui fa parte Yamamoto è stato ucciso da esponenti di un clan rivale; per i sottoposti vale ora la legge di "ciascuno per sé". Il fratello di Yamamoto decide di affiliarsi al clan che ha ucciso il suo vecchio capo con la speranza di riuscire a distruggerlo dall'interno, ma la prima azione che gli viene richiesta è proprio quella di uccidere Yamamoto. La morte dello yakuza viene inscenata mettendo al suo posto un cadavere irriconoscibile, e Yamamoto fugge negli Stati Uniti, raggiunto successivamente dal suo braccio destro Kato, dove abita il suo fratellastro minore. Questi è un delinquentello di scarse ambizioni che ha lasciato il lavoro in una gastronomia giapponese per associarsi a spacciatori e piccoli truffatori di colore; Yamamoto lo ritrova e rimette in riga i suoi compari, per poi gestire i suoi traffici in modo più efficace, al costo di scatenare una guerra contro le altre organizzazioni criminali della città, da quelle latinoamericane alla mafia.
Kitano è come sempre perfetto nella sua caratterizzazione di un personaggio duro e apparentemente incrollabile ma che alla fine rivela di avere un cuore. Come avviene anche in altri suoi film, i primi minuti delle sue apparizioni sullo schermo passano senza che spiccichi parola. Anche in diversi film del cinema americano c'erano stati esempi di incontri/scontri tra "marginalità" (non nel senso di "emarginati", ma nel senso di "persone che vivono ai margini della società", in questo caso per i loro traffici illegali) afroamericani e asiatici; in questo caso, pare che la commistione sia particolarmente riuscita. Il fatto che la "nuova gestione" introdotta da Yamamoto nella cerchia del fratello minore porti un grande miglioramento di efficienza ma anche scontri cruenti con gli altri delinquenti può essere stato, nelle intenzioni del regista, la dimostrazione del fatto che applicare un modello (quello giapponese nella fattispecie) ad una diversa realtà può portare sì dei vantaggi, ma anche delle conseguenze rovinose.
Il capo del clan di cui fa parte Yamamoto è stato ucciso da esponenti di un clan rivale; per i sottoposti vale ora la legge di "ciascuno per sé". Il fratello di Yamamoto decide di affiliarsi al clan che ha ucciso il suo vecchio capo con la speranza di riuscire a distruggerlo dall'interno, ma la prima azione che gli viene richiesta è proprio quella di uccidere Yamamoto. La morte dello yakuza viene inscenata mettendo al suo posto un cadavere irriconoscibile, e Yamamoto fugge negli Stati Uniti, raggiunto successivamente dal suo braccio destro Kato, dove abita il suo fratellastro minore. Questi è un delinquentello di scarse ambizioni che ha lasciato il lavoro in una gastronomia giapponese per associarsi a spacciatori e piccoli truffatori di colore; Yamamoto lo ritrova e rimette in riga i suoi compari, per poi gestire i suoi traffici in modo più efficace, al costo di scatenare una guerra contro le altre organizzazioni criminali della città, da quelle latinoamericane alla mafia.
Kitano è come sempre perfetto nella sua caratterizzazione di un personaggio duro e apparentemente incrollabile ma che alla fine rivela di avere un cuore. Come avviene anche in altri suoi film, i primi minuti delle sue apparizioni sullo schermo passano senza che spiccichi parola. Anche in diversi film del cinema americano c'erano stati esempi di incontri/scontri tra "marginalità" (non nel senso di "emarginati", ma nel senso di "persone che vivono ai margini della società", in questo caso per i loro traffici illegali) afroamericani e asiatici; in questo caso, pare che la commistione sia particolarmente riuscita. Il fatto che la "nuova gestione" introdotta da Yamamoto nella cerchia del fratello minore porti un grande miglioramento di efficienza ma anche scontri cruenti con gli altri delinquenti può essere stato, nelle intenzioni del regista, la dimostrazione del fatto che applicare un modello (quello giapponese nella fattispecie) ad una diversa realtà può portare sì dei vantaggi, ma anche delle conseguenze rovinose.