Recensione
I figli del mare
10.0/10
Recensione di Metaldevilgear
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Misteriosa come la vita e le profondità del mare.
Quella che ci propone un placido ma consapevole Ayumu Watanabe è un'operazione estremamente ambiziosa, a cavallo tra un'audace espressione d'autore, un più che mai fedele ossequio all'estetica di Daisuke Igarashi e uno spiccato esempio di cinema nel suo significato più primordiale. Nondimeno è un'esperienza filmica che non riduce il suo destinatario a mero spettatore passivo, e che acquista ulteriore fascino (o pretenziosità, a seconda del punto di vista) proprio per via della voluta cripticità, ma che non per questo è restia ad accompagnarci nella ricerca di una nostra, personale comprensione. Di questi tempi ci siamo impigriti in modo preoccupante, adagiandoci alla comodità del tutto e subito a portata di mano. Rintanandoci nella nostra comfort zone di abitudinaria apatia, abbiamo quasi dimenticato quanto sia fortificante fermarci a riordinare, riformulare sensazioni e pensieri che non si circoscrivano alla transitoria fruizione di un prodotto narrativo, ma che ci accompagnino anche nel post-visione. I figli del mare, in quanto emissari di conoscenza (e coscienza), sembrano quasi accorrere a ricordarci, a tutti noi "Ruka" oltre la quarta parete, che abbiamo ancora un'innata capacità di meditare, e di capire.
L'impianto diegetico di "Kaijuu no Kodomo" suggerisce, anche in maniera inaspettatamente limpida se rapportata al suo ricchissimo apparato sottotestuale, una cospicua serie di rimandi ai temi affrontati, che andranno a ramificarsi e diversificarsi in base alla nostra soggettiva esperienza. Alcuni di essi potrebbero considerarsi più marcati rispetto ad altri, come quelli al panteismo naturalistico, alla teoria di Gaia, al darwinismo, alla memoria genetica, alla maternità; ma nulla ci vieterebbe di vederci, ad esempio, il racconto di formazione della ben tratteggiata protagonista, di trarne (anche se in misura minore a mio parere) spunti ecologisti, o semplicemente di assimilarlo, anima e corpo, come la viscerale, catartica esperienza sensoriale che la miracolosa realizzazione di Studio 4°C è stata in grado di garantirci.
Divagare in ulteriori celebrazioni di quest'ultima, oltre ad essere superfluo, sarebbe come fornire terreno (in)fertile a una erronea e largamente condivisa propensione, quella di dissociare la forma dal contenuto, relegando la prima ad orpello o a stratagemma distrattivo. Allora resterò breve e adotterò il modus valutativo più comunemente osservato: la pelle d'oca che ho provato lungo larghi tratti della pellicola (in particolare nel suo picco dagli echi kubrickiani) è un'attestazione di pura bellezza che vale più di mille parole, ergo giudicherò "Children of the Sea" in base a quanto mi ha emozionato. Che dire quindi, capolavoro?
Ah, un'altra cosa. Hisaishi-san, grazie di esistere.
Quella che ci propone un placido ma consapevole Ayumu Watanabe è un'operazione estremamente ambiziosa, a cavallo tra un'audace espressione d'autore, un più che mai fedele ossequio all'estetica di Daisuke Igarashi e uno spiccato esempio di cinema nel suo significato più primordiale. Nondimeno è un'esperienza filmica che non riduce il suo destinatario a mero spettatore passivo, e che acquista ulteriore fascino (o pretenziosità, a seconda del punto di vista) proprio per via della voluta cripticità, ma che non per questo è restia ad accompagnarci nella ricerca di una nostra, personale comprensione. Di questi tempi ci siamo impigriti in modo preoccupante, adagiandoci alla comodità del tutto e subito a portata di mano. Rintanandoci nella nostra comfort zone di abitudinaria apatia, abbiamo quasi dimenticato quanto sia fortificante fermarci a riordinare, riformulare sensazioni e pensieri che non si circoscrivano alla transitoria fruizione di un prodotto narrativo, ma che ci accompagnino anche nel post-visione. I figli del mare, in quanto emissari di conoscenza (e coscienza), sembrano quasi accorrere a ricordarci, a tutti noi "Ruka" oltre la quarta parete, che abbiamo ancora un'innata capacità di meditare, e di capire.
L'impianto diegetico di "Kaijuu no Kodomo" suggerisce, anche in maniera inaspettatamente limpida se rapportata al suo ricchissimo apparato sottotestuale, una cospicua serie di rimandi ai temi affrontati, che andranno a ramificarsi e diversificarsi in base alla nostra soggettiva esperienza. Alcuni di essi potrebbero considerarsi più marcati rispetto ad altri, come quelli al panteismo naturalistico, alla teoria di Gaia, al darwinismo, alla memoria genetica, alla maternità; ma nulla ci vieterebbe di vederci, ad esempio, il racconto di formazione della ben tratteggiata protagonista, di trarne (anche se in misura minore a mio parere) spunti ecologisti, o semplicemente di assimilarlo, anima e corpo, come la viscerale, catartica esperienza sensoriale che la miracolosa realizzazione di Studio 4°C è stata in grado di garantirci.
Divagare in ulteriori celebrazioni di quest'ultima, oltre ad essere superfluo, sarebbe come fornire terreno (in)fertile a una erronea e largamente condivisa propensione, quella di dissociare la forma dal contenuto, relegando la prima ad orpello o a stratagemma distrattivo. Allora resterò breve e adotterò il modus valutativo più comunemente osservato: la pelle d'oca che ho provato lungo larghi tratti della pellicola (in particolare nel suo picco dagli echi kubrickiani) è un'attestazione di pura bellezza che vale più di mille parole, ergo giudicherò "Children of the Sea" in base a quanto mi ha emozionato. Che dire quindi, capolavoro?
Ah, un'altra cosa. Hisaishi-san, grazie di esistere.