Recensione
Hi Score Girl
8.0/10
Un anime per certi versi sorprendente, divertente e ben curato, piacevole anche visivamente nonostante l’animazione in CGI, comunque armonizzata in modo tale da non farsi troppo notare. Un racconto dalle venature nostalgiche, per quei 30-40enni occidentali che parte della loro giovinezza l’hanno trascorsa davanti quegli enormi cabinati i quali, messi a paragone con le console ultraleggere e i supporti multimediali degli anni duemila, sembrano degli invasori alieni dalle elementari forme robotiche. Eppure quelle ingombranti fonti di intrattenimento, ormai totalmente annientate alle nostre latitudini – in Giappone, al contrario, non solo sopravvivono, sia pur evidentemente decimati rispetto al tempo che fu, ma restano ancora luogo di culto per i gamers -, conservano un fascino ai nostri occhi cresciuti che le nuove potentissime console non possiederanno mai, non fosse altro perché le sale giochi erano anche luoghi di incontro e socializzazione, lontane anni luce dall’alienante solitudine nella quale le nuove tecnologie relegano tanti ragazzini – e non soltanto – nelle loro camerette del mondo globale.
Attraverso gli occhi di un bambino che diventa adolescente, passando dalla sala giochi alla PlayStation nell’arco di cinque anni, per ritornare in sala e a un nuovo incontro-scontro con colei che gli fa battere forte il cuore, lo spettatore torna a confrontarsi nuovamente con tanti di quei giochi virtuali che lo hanno accompagnato lungo gli anni della crescita e della piena coscienza di sé. È proprio questo il punto forte di un’opera come High score girl, quello di ripercorrere i turbamenti dell’adolescenza attraverso l’evoluzione di un mondo ludico e virtuale che era assolutamente unico e irripetibile ai nostri occhi, sia che fossimo stati dei malati incurabili dei videogames, come il nostro simpatico protagonista, sia che tutto ciò avesse suonato “soltanto” come una piacevole musica d’accompagnamento d’un tempo di formazione irrinunciabile, come lo è stata probabilmente per i più, tra i quali anch’io mi iscrivo, essendo cresciuto più che altro a pane e partite di pallone. Proprio Haruo, così apparentemente noncurante e sbarazzino nel voler dar sfogo alla sua passione-ossessione per i videogiochi, ci introduce efficacemente ai mutamenti emotivi e al turbinio sentimentale dell’adolescenza, facendo il verso, in alcuni momenti – non peregrina la similitudine, considerando l’età del mangaka di riferimento – a quell’Ataru Moroboshi nel quale noi ragazzini degli Ottanta in parte ci identificavamo, altrettanto dedito al “cazzeggio” e perdigiorno, comunque preda dell’amata-odiata autoproclamatasi “fidanzatina ufficiale” proveniente dallo spazio (stiamo parlando evidentemente di Lamù, uno degli anime più divertenti e scanzonati arrivati in Italia negli anni ottanta). Pur in un contesto differente, e concepito in un’altra epoca, con tutte le differenze di pathos e linguaggio che la distanza temporale naturalmente evidenzia, il rapporto che si instaura tra Haruo e Oono ricorda per certi versi quello tra Ataru e Lamù, con tanto di botte prese a senso unico dal malcapitato protagonista. Quelle botte che però sono segni d’affetto e di vicinanza, e che paradossalmente, ma non poi tanto, contribuiscono a far crescere un sentimento assai difficile da esplicitare a parole a quell’età. Difficile anche perché Oono resta muta per tutto l’arco delle 12 puntate, pur lasciandosi ben intendere attraverso gli sguardi e le espressioni. Le caratterizzazioni animate, in effetti, per quanto non rubino l’occhio sono bene assemblate, trasmettendo efficacemente tutte le emozioni in gioco.
Interessanti peraltro sono alcune intuizioni narrative, come quella di immaginare la coscienza di Haruo che gli si manifesta sotto forma dei personaggi dei videogiochi (trovata narrativa simile a quella che Nick Hornby utilizzò nel suo bel romanzo di formazione adolescenziale "Tutto per una ragazza", nei frangenti nei quali al sedicenne skater Sam si manifesta in sogno il suo idolo Tony Hawk). Ultima nota per le piacevoli sigle, l’esplicita (nel senso che esplicita in maniera chiara attraverso le immagini le dinamiche dell’anime) e divertente opening, ma soprattutto una ending che caricaturizza in modo infantile i disegni dei protagonisti, velando di dolcezza e malinconia un tema musicale che si accorda perfettamente con le forme animate e con l’emozione che vuol restituire.
Attraverso gli occhi di un bambino che diventa adolescente, passando dalla sala giochi alla PlayStation nell’arco di cinque anni, per ritornare in sala e a un nuovo incontro-scontro con colei che gli fa battere forte il cuore, lo spettatore torna a confrontarsi nuovamente con tanti di quei giochi virtuali che lo hanno accompagnato lungo gli anni della crescita e della piena coscienza di sé. È proprio questo il punto forte di un’opera come High score girl, quello di ripercorrere i turbamenti dell’adolescenza attraverso l’evoluzione di un mondo ludico e virtuale che era assolutamente unico e irripetibile ai nostri occhi, sia che fossimo stati dei malati incurabili dei videogames, come il nostro simpatico protagonista, sia che tutto ciò avesse suonato “soltanto” come una piacevole musica d’accompagnamento d’un tempo di formazione irrinunciabile, come lo è stata probabilmente per i più, tra i quali anch’io mi iscrivo, essendo cresciuto più che altro a pane e partite di pallone. Proprio Haruo, così apparentemente noncurante e sbarazzino nel voler dar sfogo alla sua passione-ossessione per i videogiochi, ci introduce efficacemente ai mutamenti emotivi e al turbinio sentimentale dell’adolescenza, facendo il verso, in alcuni momenti – non peregrina la similitudine, considerando l’età del mangaka di riferimento – a quell’Ataru Moroboshi nel quale noi ragazzini degli Ottanta in parte ci identificavamo, altrettanto dedito al “cazzeggio” e perdigiorno, comunque preda dell’amata-odiata autoproclamatasi “fidanzatina ufficiale” proveniente dallo spazio (stiamo parlando evidentemente di Lamù, uno degli anime più divertenti e scanzonati arrivati in Italia negli anni ottanta). Pur in un contesto differente, e concepito in un’altra epoca, con tutte le differenze di pathos e linguaggio che la distanza temporale naturalmente evidenzia, il rapporto che si instaura tra Haruo e Oono ricorda per certi versi quello tra Ataru e Lamù, con tanto di botte prese a senso unico dal malcapitato protagonista. Quelle botte che però sono segni d’affetto e di vicinanza, e che paradossalmente, ma non poi tanto, contribuiscono a far crescere un sentimento assai difficile da esplicitare a parole a quell’età. Difficile anche perché Oono resta muta per tutto l’arco delle 12 puntate, pur lasciandosi ben intendere attraverso gli sguardi e le espressioni. Le caratterizzazioni animate, in effetti, per quanto non rubino l’occhio sono bene assemblate, trasmettendo efficacemente tutte le emozioni in gioco.
Interessanti peraltro sono alcune intuizioni narrative, come quella di immaginare la coscienza di Haruo che gli si manifesta sotto forma dei personaggi dei videogiochi (trovata narrativa simile a quella che Nick Hornby utilizzò nel suo bel romanzo di formazione adolescenziale "Tutto per una ragazza", nei frangenti nei quali al sedicenne skater Sam si manifesta in sogno il suo idolo Tony Hawk). Ultima nota per le piacevoli sigle, l’esplicita (nel senso che esplicita in maniera chiara attraverso le immagini le dinamiche dell’anime) e divertente opening, ma soprattutto una ending che caricaturizza in modo infantile i disegni dei protagonisti, velando di dolcezza e malinconia un tema musicale che si accorda perfettamente con le forme animate e con l’emozione che vuol restituire.