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9.0/10
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Departures, ovvero i defunti, i dipartiti, coloro che in tutte le religioni, pur nelle loro differenze, a Oriente come a Occidente, hanno sorpassato la soglia della vita terrena per avventurarsi in un viaggio a noi mortali sconosciuto e inconoscibile. Per prepararsi al viaggio, nella tradizione giapponese, in modo assolutamente trans-religioso, colui che definiamo becchino può diventare un vero e proprio artista del trucco e della vestizione delle salme, nonché una sorta di maestro di cerimonia: il rito della disposizione, la cura nel nokanshi, è un delicato e a suo modo riconciliante estremo saluto da parte di familiari e amici a chi muore, a tutti coloro che si accingono a quello che in molte dottrine – soprattutto quelle monoteiste e occidentali, mentre al contrario quelle orientali, come buddismo e induismo, contemplano un percorso karmico fatto di ciclicità e innumerevoli trasmigrazioni – e tradizioni è considerato l’ultimo viaggio dell’anima. Tema scomodo, difficile e anti narrativo in un mondo di celluloide che va configurandosi sempre più a immagine di quello televisivo fatto di lustrini, paillettes e falsificazione-rimozione della realtà. Tema che Takita e lo sceneggiatore Koyama adattano da un racconto di Shinmon Aoki in modo incantevole, mescolando solennità e leggerezza, misurando l’emotività e confinando le lacrime, appena appena sfuggite al protagonista, solo al riconciliante e simbolico epilogo.

Un’opera di estrema profondità, di estetizzante bellezza, che ha il merito più unico che raro di parlarci di morte con spensieratezza e, in alcuni frangenti, con una leggerezza quasi ilare (vedere il curioso ed emblematico incipit, ma non soltanto), con una solennità senza peso né zavorre che invita davvero alla riflessione-immedesimazione fino a provare una giusta e salutare sensazione di pace, una volta usciti dalla sala. Un’eleganza formale che, mai come in questo caso, è pura sostanza; un film uguale a nessun altro, che ha davvero, come raramente accade, soltanto pregi, salvo detestare il genere (ma è una pellicola incasellabile in un genere? C’è da chiedersi) o, a voler trovare la pagliuzza (per qualcuno il rito con cui chiude l’opera poteva essere prevedibile), stigmatizzare negativamente l’epilogo edificante. Bisogna andare oltre, decisamente, e guardare all’insieme, al piccolo miracolo di un film il quale riesce a universalizzare empaticamente il tema della morte, rappresentato in modo da essere interiorizzato e accettato, così come presentato, da qualsiasi fede-confessione religiosa e da qualunque spettatore abituato ad andare oltre al semplice e spensierato intrattenimento. Departures è una pellicola che parla a tutti, che trasporta il simbolo e il rito nella vita quotidiana e lo rende comprensibile e decifrabile a qualsiasi latitudine e da qualsiasi tipo di sensibilità. In questo è un’opera molto laica e al contempo spirituale nel senso più puro del termine, senza bisogno di appellarsi agli spiritualismi, che parla di viaggio dell’anima attraverso la cura dei corpi – le estremità che coincidono: tema principe della letteratura del grande romanziere giapponese Yukio Mishima, mutuato soprattutto dalla dottrina scintoista -, tralasciando le implicazioni religiose e soffermandosi invece sul valore estetico dei gesti e sul significato dei simboli. Una trasmissione culturale che continua, nonostante i mutamenti radicali del Giappone – come scriveva lo storico delle religioni Eliade, il simbolo e il rito, manifestazioni del sacro nella storia, si perpetuano e si rigenerano: hanno una dimensione ciclica e atemporale.

La regia di Takita è semplice ma accurata, evita inutili virtuosismi e si sofferma sulle intense sequenze della vestizione e del trucco dei corpi, sovente contrappuntate dall’intenso tema musicale del miyazakiano Hisaishi, ancora una volta al suo meglio, che torna sulle suggestive immagini di chiusura e si libera totalmente sui titoli di coda. La prova di Masahiro Motoki, il protagonista, è davvero straordinaria: raramente incontrerete un corpo che vi parla come il suo, una misura e un rigore nei momenti di solennità – sia nel suonare il violoncello che nella vestizione dei corpi – che diventano cifra estetica evidente, senza dimenticare il duplice registro recitativo (brillante e drammatico) su cui viene costruito il suo personaggio. Ottima anche la prova di Yamazaki Tsutomu, nei panni di Sasaki, il quale sovverte l’immagine letteraria e universalmente percepita del becchino con grazia, leggerezza e giusta misura, tornando curiosamente alle atmosfere di celebrazione dei defunti dopo The Funeral di Juzo Itami.

Una pellicola in cui la morte è solo l’innesco per parlare di quell’amore immortale a noi più prossimo, indissolubile, senza tempo; quello per le nostre madri e i nostri padri, per le nostre mogli, i nostri mariti, i nostri figli, i nostri amici più cari, i nostri tanti compagni di viaggio e tutti coloro che sono scomparsi solo fisicamente ma che restano vivi nell’emozione, nel ricordo, nelle preghiere, nei gesti, in quello che eravamo, in quello che siamo, in quello che saremo. Nei territori imperscrutabili dell’inconscio, nella vita dell’anima.