logo GamerClick.it

-

Realizzare una serie originale, o anche solo decente, quando il franchise va avanti da molti anni, non è mica una cosa semplice. Se poi ci si mette di mezzo una pandemia improvvisa proprio quando la serie deve parlare di malattie, allora il disastro è assicurato… o quasi, in realtà non credo che sia stata del tutto colpa del vero virus, bensì di una completa disorganizzazione degli autori, ma meglio andare con ordine.

La trama di "Healin’ Good Pretty Cure" è piuttosto semplice e lineare, quasi basica, ma per circa metà della stagione questo non è un problema, anzi è il suo punto di forza. Come già accaduto nella stragrande maggioranza dei casi nel franchise, non ci si concentra su un intreccio complesso di eventi ma sullo sviluppo delle protagoniste, e in qualche sporadica occasione anche delle mascotte. Ciò è la base per ogni anime slice of life che si rispetti, e in Healin’ Good è così preponderante da risultare a tratti noiosa. Non è necessariamente un difetto, ma è indubbio che questa stagione sia più simile a serie soft come Splash Star o Mahou Tsukai, e non a colleghe ben più blasonate come HugTTO o DokiDoki. Come già anticipato, il focus è tutto sull’evoluzione dei personaggi principali, mai originalissimi (soprattutto nel design), ma comunque con alcune premesse interessanti: basti pensare al passato di Nodoka, alla sportività di Chiyu o alla solo apparente stupidità di Hinata. Oltre a questo, pur non essendoci un folto cast di personaggi secondari, vengono fin da subito lasciati indizi di rapporti fra loro e le protagoniste, come quello tra Daruizen e Nodoka a cui è riservata perfino una breve scena nella opening. Parlando delle mascotte, invece, si può notare anche qui qualche elemento di novità: non solo le tre partecipano agli scontri sotto forma di scettri, ma nella vita di tutti i giorni si relazionano con l’intero team di ragazze, e non unicamente con la propria partner, superando un cliché stra-abusato nel franchise e dimostrando una personalità non indifferente. Un esempio è senza dubbio Rabirin, a tratti fastidiosa ma comunque molto vivace e all’occorrenza riflessiva, o ancora il dolcissimo Pegitan che più volte riesce a motivare Chiyu. Tutto questo, purtroppo, a partire da circa metà serie, dopo una pausa piuttosto lunga, subisce un vero e proprio tracollo, in quanto alcune premesse rimangono soltanto tali e altri elementi vengono brutalmente rimaneggiati. Colpa della pandemia? Colpa di problemi che la serie aveva già in partenza e che solo dopo si sono rivelati? Chi lo sa, è probabile qui (per via di alcuni difetti specifici) che sia un misto devastante di entrambi, ma sta di fatto che Healin’ Good riesce – nemmeno del tutto per colpa sua – a peggiorare alcune problematiche presenti in stagioni precedenti e che sembravano impossibili da peggiorare.

Andando a descrivere più nel dettaglio i personaggi, non si può non partire dalla leader, ovvero Nodoka. Si tratta di una leader decisamente atipica, simile forse soltanto a Tsubomi di Heartcatch: è tranquilla, intelligente, non è folle e soprattutto non spicca all’interno del gruppo. Può sembrare un difetto, ma ancora una volta c’è un ribaltamento, poiché Nodoka sfrutta più volte senza volerlo questa sua caratteristica per fare da mediatrice nel gruppo, tenuto unito proprio grazie a lei. A Nodoka è legata inoltre la backstory più interessante della stagione, nonché la più monca di tutte: pur avendo dei risvolti piuttosto prevedibili, inizialmente aveva stupito per la sua profondità, per poi ritrovarsi fin troppo ridimensionata a causa (probabilmente) di motivi ben noti a tutti. Essendo difficile parlare di una dura malattia in un periodo del genere, ecco che alla tematica sono riservati solo tre episodi frettolosi dopo la pausa, di cui uno pure abbastanza controverso e difficile da considerare canonico, dato che stravolge il personaggio altruista di Nodoka, trasformandolo da generoso a ipocrita a di nuovo generoso nel giro di meno di venti minuti e per un motivo che non sta né in cielo né in terra.

Dopo Nodoka viene Chiyu, insolitamente attiva per essere una Cure blu, ma in ogni caso combattuta tra diverse scelte che potrebbero cambiarle la vita per sempre. Nello specifico, poiché la sua famiglia gestisce una locanda, è indecisa se ereditarla o se specializzarsi nel salto in alto. Dato che la questione dell’indecisione è trita e ritrita, le puntate dedicate a essa sono fra le meno interessanti di Healin’ Good, nonostante – bisogna ammetterlo – alcune riflessioni compiute da Chiyu, oltre alle puntate iniziali dedicate allo sport, risultino davvero coinvolgenti e a volte anche commoventi. Purtroppo, però, neanche Chiyu riesce a sfuggire al tracollo della serie: partendo da una serie di soluzioni irrealistiche e poco coerenti nello sviluppo della serie stessa, si culmina negli episodi finali con una decisione insensata e potenzialmente diseducativa, dato che ogni singolo personaggio la accetta senza farsi venire dubbi e senza dunque fornire un contraddittorio.

Terza protagonista è Hinata, di base la più delineata insieme a Nodoka e, in maniera inversamente proporzionale, anche la più sfortunata. Ha una sorta di corazza di giovane frivola e stupida, incapace a scuola, ma in realtà cela dei profondi sensi di colpa e di inferiorità verso le sue compagne, secondo lei tutte più brave e intelligenti. Il percorso che Hinata compie è forse il più realistico di Healin’ Good, ma a causa di un dichiarato taglio di episodi (incentrati soprattutto su di lei) anch’esso appare monco. Inoltre, ma questo non è di certo colpa del virus, Hinata, insieme a tutte le altre, nel finale inspiegabilmente regredisce, compiendo scelte assurde che vanificano ogni cosa buona accaduta in precedenza. Non solo, in alcune puntate arriva perfino a fare affermazioni ingiustificabili, come quando si trova allo zoo e afferma, alla veneranda età di 13/14 anni, di non sapere che la tigre è un felino. Lo scopo qui era ovvio, era quello di far ridere a tutti i costi, ma gli autori hanno decisamente esagerato, finendo per far diventare la poveretta veramente stupida, e non solo goffa come si era pensato all’inizio. È scontato che nessun tassello mancante potesse risolvere la situazione, anzi forse l’avrebbe perfino peggiorata, rendendo la regressione ancora più incomprensibile e difficile da digerire. Dunque una magrissima consolazione che però lascia comunque l’amaro in bocca.

Ultima, e sicuramente meno importante, è Asumi, ovvero la classica protagonista aggiunta a metà serie. Come spesso accade in questi casi, la rilevanza di Asumi è pressoché pari a zero. Viene presentata occasionalmente come deus ex machina e in più le viene dedicato un arco di circa cinque episodi consecutivi, finito il quale l’”evoluzione” di Asumi si esaurisce e come unici suoi tratti “rilevanti” rimangono l’età superiore agli standard (venti anni) e il suo attaccamento morboso a Latte, neanche utili ai fini della trama. Questa futilità non stupisce nemmeno, in realtà: lo stesso tipo di personaggio è un cliché che esiste già dai tempi di Hikari in Max Heart, eppure anche Hikari, che già all’epoca sembrava la peggiore del franchise, ora viene superata. Asumi non ha letteralmente un passato, non ha nessun collegamento rilevante con la vecchia partner della regina Teatine (come invece pareva esserci), fuori dalla lotta ha dei poteri forzati che vengono giustificati del tutto a caso negli ultimi episodi e in più la sua presenza si porta dietro un buco di trama grande non quanto una casa, ma quanto un intero quartiere di una metropoli. Viene detto infatti che la debole Teatine ha potuto evocarla, in un momento di difficoltà per le Cure, tramite una banale preghiera… ma questo stesso evento poteva tranquillamente verificarsi ben prima dell’inizio della serie, ben prima che Teatine mettesse in pericolo la sua stessa figlia! Avrebbe reso vana tutta Healin’ Good, ma almeno la storia avrebbe avuto un senso.

Proseguendo nel disastro compiuto con i personaggi, non si può non parlare dei nemici, in tutto cinque, più qualche esperimento sparso qua e là negli episodi (ma di pochissima importanza). Abbastanza interessante è la loro natura di virus, seppur mai approfondita: essi infatti non sono dei veri e propri cattivi, ma lo diventano soltanto a serie inoltrata e neanche per un motivo ben preciso; all’inizio infatti prendono tutti il loro compito alla leggera, a nessuno importa veramente di attaccare le Cure e, perché no, sconfiggerle. Proprio come dei virus reali, i nemici di Healin’ Good sono parassiti obbligati. Nascono come tali e così rimangono per tutto il tempo, senza avere la benché minima possibilità di redimersi. Certamente è triste, e forse anche insensato visti alcuni avvenimenti in particolare, ma per la maggior parte del tempo è estremamente realistico. Addirittura in alcuni istanti i nemici non sanno nemmeno perché stanno attaccando le loro avversarie. Lo fanno perché devono, perché magari sentono un qualche legame con loro, ma non riescono a spiegarsi il vero motivo, dato che questo motivo non c’è. Nessun odio, e questo è uno spunto veramente interessante… che però rimane solo uno spunto.

Il risultato di questo mancato approfondimento psicologico è soprattutto evidente nella figura di Daruizen, in teoria il nemico più importante, anche più del bistrattato King Byogen. A differenza dei suoi colleghi, è l’unico ad avere una backstory, ed è anche l’unico ad avere un confronto decente con una delle protagoniste. Non è chiaro se questi altri abbinamenti nemico-Cure siano solo frutto della fantasia dei fan, o se anche qui ci sia qualche pezzo della storia tagliato, sta di fatto che in questo modo Daruizen mette in ombra chiunque. Come era successo anni fa in Go! Princess con lo scontro ideologico tra Flora e Close, anche qui dovevano esserci una serie di incontri determinanti che sarebbero culminati in un finale intenso; tuttavia la storia di Healin’ Good è – permettetemi il paragone – un classico Icaro che vola troppo vicino al sole. Le ali si sciolgono e lui cade a terra malamente. La carne al fuoco era tanta, troppa, e le poche risorse a disposizione l’hanno purtroppo resa soltanto la pseudo-copia sbiadita di quello che è stato Go! Princess al suo tempo. Gli episodi di Daruizen risultano così frettolosi, la sua vera natura viene spiegata in soli venti minuti a suon di spiegoni insensati, per poi arrivare a un colpo di scena che avrebbe potuto risollevare il tutto e che invece lo affossa ancora di più. Tutto quello che resta, dunque, è di nuovo l’amaro in bocca. Di Daruizen alla fine salvo soltanto la doppiatrice: nonostante abbia avuto poche scene a disposizione, ha reso piuttosto bene il carattere del suo personaggio, forse anche meglio di quanto potesse fare la trama da sola.

Peggio ancora va a Shindoine, unica nemica donna, inspiegabilmente rientrata fra le grazie degli autori e trascinata fino alla fine di Healin’ Good senza alcuna giustificazione valida. Shindoine è infatti la solita nemica frivola, innamoratissima del proprio capo e non particolarmente forte, né tanto meno furba. Di lei non si sa nient’altro, ma si è ipotizzato che potesse avere un qualche collegamento con Chiyu, con la quale si scontra più di una volta. Ciò è ovviamente una copia scialba del confronto Daruizen-Nodoka, che a sua volta era già una copia scialba di qualcos'altro, per cui il risultato è pessimo. Non c’è nessuna base per i loro brevi dibattiti, così come non c’è nulla che spieghi il suo stravolgimento nel finale di stagione. O meglio, in realtà ci sarebbe, e si tratta di una tematica sociale talmente sbucata fuori all’improvviso e talmente resa male che per comprenderla vagamente è servita la scrittrice in persona a doverlo spiegare in più di un’intervista. Inutile dire che questo è un difetto piuttosto grave, mai visto finora all’interno del franchise. Dopo Shindoine arriva poi Guaiwaru, che risulta ben poco memorabile. Il motivo è semplice: non solo non gli viene riservato mai abbastanza spazio, ma la sua stessa figura è diventata ormai monotona e non aggiunge nulla ai tanti altri omaccioni forzuti delle tante altre serie di Pretty Cure. Non ha un passato, non è legato a nessuna Cure, combatte e basta, tentando anche lui sul finale un colpo di scena malriuscito. Senza fare spoiler, per una certa ragione il suo atteggiamento muta rapidamente, il che può anche essere comprensibile, ma le ragioni del fatto ci vengono spiegate a parole e non mostrate, come se fossero accadute offscreen. Ciò lascia abbastanza interdetti e di sicuro non permette di apprezzare neanche un minimo un personaggio che già di suo non aveva molto da dire.

Concludo questa mega-sezione sui personaggi con coloro che se ne sono andati troppo presto: Batetemoda, King Byogen e tutti gli esperimenti falliti di Daruizen. Fra questi, ma in realtà fra tutti i nemici, soltanto il primo ha un ruolo degno all'interno di questa serie, e infatti il motivo per cui è dispiaciuto non vederlo più è perché era un bel personaggio. Nel suo caso, non c'era affatto una psicologia approfondita, ma questo si trasformava nel suo punto di forza, perché era utile per contrapporlo a tutti gli altri personaggi, colleghi compresi. L'unico suo difetto evidente è la sua vena umoristica: le gag dedicate a lui senza dubbio fanno ridere se prese a sé, ma in alcuni episodi si trovano del tutto fuori contesto, essendo posizionate a volte in momenti della storia in cui si respira tutt'altra atmosfera. Ma questo alla fine è soltanto un dettaglio, e la breve vita di Batetemoda è sicuramente apprezzabile, dato anche che la nutria ci ha anche regalato fra le migliori lotte di Healin' Good. Ciò non avviene invece per gli altri due, anche se per motivi diversi. Gli esperimenti di Daruizen hanno vita ancora più breve e sono così ridicoli da non riuscire nemmeno a combattere bene, e questo avrebbe anche senso, se solo Daruizen nel corso degli episodi non si dimenticasse di loro e del concetto di Megapart. Tutto quel suo essere cinico, il suo voler sperimentare nuove tecniche di combattimento, si riducono infatti al nulla più totale. Per quanto riguarda King Byogen la situazione è ancora più disperata, dato che si tratta del boss finale più low budget che sia mai esistito. Parte senza avere un corpo, poi diventa un essere informe in 2D e infine si trasforma nella copia mostruosa di Teatine, con la differenza che (Neo) King Byogen a malapena muove gli arti e la bocca. Ci sono comunque dei momenti emozionanti legati a lui sul finale, come il discorso di Nodoka o il solito momento in cui le Cure sconfitte si risollevano, ma ci sono altrettante incoerenze e problemi tecnici da rendere la storia indecente. Menzione d’onore poi al suo collegamento con lo Healing Animal Saruro, scimmia anziana con cui il re malvagio condivide il doppiatore e che compare soltanto nell’epilogo. Una recentissima intervista ha specificato che quella del doppiatore è solo una coincidenza, dovuta al fatto che entrambi hanno delle idee simili, ma questo non risolve affatto la situazione, anzi! Se prima sembrava che ci fosse qualche scena tagliata in cui magari si spiegava il loro legame, ora sembra soltanto che gli autori abbiano delineato in maniera pigra entrambi i personaggi. Ancora una volta quindi un pessimo lavoro.

Prima di passare alla parte forse più succosa di questa serie, qualche parolina sugli scontri. È evidente che la loro fisicità, con gli anni, sia molto diminuita. Parlare di qualità non ha molto senso, una lotta può essere bella anche se si combatte sempre a suon di magia, e bisogna dire che in alcune occasioni Healin’ Good sfrutta discretamente questo elemento. Questo avviene ad esempio attraverso gli onnipresenti scettri/mascotte che, seppur ogni tanto siano realizzati in una CGI bruttina, almeno si fanno valere difendendo le loro padrone e talvolta anche attaccando. A questo si aggiungono anche animazioni decenti in molte scene d’azione, nonché un uso scarsissimo di stock animation: da questo si può dedurre un certo impegno nelle fasi iniziali del progetto, purtroppo non gestito con costanza. In molti casi si notano infatti mancanza di risorse e una palese pigrizia, che – a parte rarissime eccezioni – aumenta più ci si avvicina al finale. La durata degli scontri inizia a rasentare gli zero secondi, i colpi (fisici e non) sono ridotti all’osso, le Cure e i nemici si deformano sempre più spesso e infine gli scontri ideologici diventano ridicoli, se non addirittura incomprensibili.

E ora, finalmente le tematiche, non troppe ma comunque piuttosto rilevanti. Di base sono tutte molto mature, ricche di spunti di riflessione: si parla infatti di armonia, di malattia, di amicizia, di ecologia e – così pare – anche di femminismo. Inizio con la tematica che trovo gestita meglio, ovvero l’ecologia, che paradossalmente è quella discussa meno dai personaggi, a dimostrazione del fatto che non serve mostrare tutto in modo esplicito, anzi. In questo caso, a riguardo c’è solo qualche monito da parte delle mascotte sparso qua e là nelle puntate; per il resto ci viene tutto lasciato intuire attraverso dei dettagli semplici ma efficaci, ad esempio le attività dei cittadini di Sukoyaka, che lavorano sempre per mantenere in salute la propria città, ma anche l’evidente negatività che si propaga quando i nemici corrodono le piante e cercano di contaminare il mondo intero. Simile poi è quanto avviene con le questioni dell’armonia e della malattia: gli episodi incentrati su di esse sono veramente belli e sanno toccare le corde giuste, come accade ad esempio quando Nodoka incontra il suo medico o quando sempre la stessa Nodoka mette in discussione il proprio altruismo. I minuti dedicati alle riflessioni morali delle protagoniste sono davvero intensi, fra i migliori della stagione, con l’unico difetto che per la maggior parte del tempo i due temi vengono trascurati. E non si parla di qualche episodio sporadico, bensì di interi blocchi di puntate nei quali sembra addirittura che queste tematiche non esistano. Ancora una volta il problema è ben più grave di come appare in un primo momento: se fossero state legate a banali sottotrame come accade in qualsiasi stagione, nessuno si sarebbe lamentato, dato che capita spessissimo nel franchise che certi elementi vengano messi in pausa per diverso tempo; qui però quei temi sono le colonne portanti di Healin’ Good, e lo dicono gli attacchi, le armi, lo stesso titolo della serie! Ma passi pure ridurre le discussioni più mature sulla malattia, quello che appare incomprensibile è come qualcosa di semplicissimo da rappresentare come l’armonia sia stato trascurato così tanto. Da un lato si vede infatti un’atmosfera molto pacifica, quasi soporifera, enfatizzata dai colori pastello usati in modo piuttosto efficace, ma dall’altro lato non c’è nulla a farle da contorno. L’universo di personaggi secondari è poco popolato e le loro attività vengono quindi mostrate raramente, i genitori delle protagoniste sono spesso assenti (nonché più irresponsabili dei loro figli più giovani) e a volte anche la stessa amicizia fra le ragazze diventa poco efficace, mostrandole poco inclusive (Hinata si dimentica di avere altre amiche quando si unisce al gruppo e Asumi non viene considerata nel giuramento d’amicizia di fronte all’albero) o in alcuni casi anche poco legate fra loro, dato che viene detto a più riprese che hanno superato le loro grandi differenze, ma senza spiegarci né il perché né il come. Di conseguenza vediamo spesso queste tre – poi quattro – ragazze diversissime uscire insieme, ma senza la possibilità di cogliere le sfaccettature delle loro relazioni o i modi in cui queste si sono evolute. Salvo in tutto questo soltanto i rapporti con le mascotte, i veri protagonisti della stagione: attraverso il semplice ma efficace concetto dei “cuori che entrano in risonanza”, assistiamo alla formazione di un legame che, nonostante vari scossoni, ogni volta si dimostra più saldo di prima, oltre che capace di migliorare sul serio sia Cure che partner.

Capitolo a parte è riservato all’ultima delle tematiche, ovvero il femminismo, a cui essendo donna mi sento molto vicina e per cui sento quindi di voler spendere qualche parola in più. Si tratta, com’è evidente, di un argomento più che attuale e veramente difficile da trattare per via della sua complessità. Considerando inoltre quanto sia diffuso il maschilismo, soprattutto in Paesi come il Giappone, parlare di questo tema è fondamentale, specialmente in serie rivolte a un target bassissimo. È ovvio che si possa spesso incappare in degli errori, è comprensibile, e di questo nessuno sta facendo una colpa. Che sia per disinformazione o per mancata comprensione di un argomento complicato, ci sta sbagliare. Siamo tutti umani, lo sono anche gli autori. Il problema però sorge quando non si accetta di aver commesso uno sbaglio, ed è questo il caso di Healin’ Good, come è (ahimé) diventato evidente a causa delle interviste rilasciate dalla scrittrice. Prima era solo un sospetto degli spettatori, ma poi lei lo ha confermato in più occasioni: tutto ciò che accade nella stagione è da vedere in un’ottica femminista. Ora, come già detto è comunque grave doversi ridurre a spiegare a parole qualsiasi elemento, perché significa che nella sceneggiatura non è stato fatto un buon lavoro, ma in questo contesto diventa ancora più grave, perché l’intervista appunto non è una sola. Lo stesso concetto viene quindi ripetuto più volte, ogni volta – ma questa forse è stata soltanto una mia impressione – con una nota di fastidio sempre più forte nelle parole della scrittrice, che probabilmente si aspettava che tutti noi comprendessimo il suo messaggio. Non ci sono state vere e proprie accuse, e di questo sono contenta, perché come avremmo potuto noi spettatori cogliere in Healin’ Good un messaggio che non viene mai lasciato trasparire? Non lo nego, quando ho scoperto che certe scene dovevano essere viste come simbolo del femminismo mi sono sentita presa in giro, perché di femminista non c’è mai stato nulla. Anzi, ho perfino dubitato che l’autrice avesse veramente colto il significato di questo concetto, dato che al massimo quello che si nota è un pizzico di misandria. Molte donne purtroppo supportano questa posizione, fortemente dannosa per il femminismo, e in qualche modo sembra che lo faccia anche Healin’ Good. Non esiste un singolo essere vivente di sesso maschile che in qualche modo non venga ridicolizzato; si passa da personaggi assenti (il padre di Nodoka) a personaggi stupidi (il padre di Hinata) o ancora ad altri che vengono spacciati come negativi al 100% (i nemici, soprattutto Daruizen, che viene lasciato morire non tanto perché virus ma perché uomo). Viene detto, quando la serie è ormai terminata, che tutto questo era per far comprendere al pubblico femminile che le donne devono essere determinate, capaci di dire no e di costruirsi la propria strada per il futuro senza per forza legarsi a un uomo… ma l’affermazione suona decisamente ipocrita, considerando 1) che Pretty Cure ha sempre avuto personaggi con queste caratteristiche, fin dalla storica Futari Wa, e 2) nella stessa Healin’ Good è presente Shindoine, una donna zerbino dall’inizio alla fine, che anzi ridicolizza il genere femminile ancora di più risultando la favorita di tutti senza mai aver dimostrato il proprio valore. Non credo che la scrittrice sia veramente sessista, ma non si può negare che il suo lavoro per la tematica è stato davvero scarso.

Passando a un argomento più tecnico, uno dei più evidenti è sicuramente quello di trasformazioni e attacchi. Nel caso delle trasformazioni c’è da notare una differenza sostanziale rispetto a quelle delle altre stagioni: sono più brevi, e neanche di poco. Se sia o no un difetto non è neanche importante, basta solo sapere che non stona affatto con quello che è il tono di Healin’ Good. La musica di sottofondo non è particolarmente memorabile, ma è carina e si adatta bene agli scarsissimi movimenti che compiono le protagoniste. Gli unici problemi sono dei frame mancanti nelle trasformazioni di Grace, Fontaine e Sparkle, ma presto anche questo dettaglio svanisce dato che nella trasformazione di gruppo i segmenti vengono montati molto meglio, dando anche un pizzico di dinamicità dove non sembrava esserci. Per quanto riguarda invece gli attacchi, è proprio un N.C.S. totale. Non ci siamo, per nessuno di loro, tanto che ognuno riesce a risultare brutto per un motivo diverso. Che sia per la banalità estrema, o per una grafica non proprio esaltante, c’è sempre da mettersi le mani nei capelli. L’esempio più calzante è l’Healing Oasis, attacco di gruppo senza Cure Earth, così statico e con degli sfondi così fatti male da non sembrare nemmeno un colpo finale. Ci sono comunque altri esempi degni di nota. Si parte con gli attacchi delle Bottle, brutti, scialbi, senza nome, e nel caso di Earth anche insensati: come dimenticare l’attacco del suono eseguito tramite un’arpa che 1) non suona e 2) potrebbe essere usata in qualsiasi momento anche senza Bottle? Ma non è finita qui, perché – per non farci mancare nulla – l’attacco finale ha la CGI più brutta tra i vari attacchi e in mezzo, pronunciate dalle Cure, ci sono anche parole inglesi fuori contesto. Un supplizio, che per fortuna dura relativamente poco.

L’ultimissimo punto riguarda le tre sigle, una di apertura e due di chiusura. Nel caso della opening e della prima ending, sono rimasta subito colpita, e a più di un anno dall’inizio di Healin’ Good il mio parere non è cambiato: sono fra le migliori del franchise, soprattutto l’ending. Sono molto orecchiabili, rimangono subito impresse e anche dal punto di vista grafico sono assolutamente degne. L’ending ha una CGI realizzata davvero bene, mentre l’opening, pur essendo in 2D, mostra delle scene adeguate (oltre a riuscire a inserire bene Asumi quando questa viene introdotta nella serie). Il discorso è diverso invece per la seconda ending, che… è abbastanza fastidiosa, per non dire di peggio. Non è la più brutta del franchise, ma per qualche motivo non riesce a farsi apprezzare del tutto. Che sia per la voce esageratamente infantile, o per la CGI terribile (realizzata con un programma diverso dalla precedente), c’è sempre un elemento che la fa risultare piuttosto indigesta. Basti pensare che in un episodio è partita comunque nonostante fino a un secondo prima ci fosse una scena davvero drammatica. In ogni caso, con la colonna sonora è stato fatto un buon lavoro in generale. A parte questa seconda ending, non ho mai notato nulla che fosse fuori posto, e addirittura nel finale di stagione viene usato un brano originale veramente adatto all’atmosfera, che quasi avrei preferito all’effettiva sigla finale.

In conclusione, a malincuore, il mio parere riguardo Healin’ Good non può che essere negativo. Per quanto io mi sia affezionata ai personaggi, per quanto abbia cercato di difendere questa stagione fino alla fine, ci sono comunque dei difetti insormontabili, che per onestà intellettuale non si possono trascurare. Come già detto, spesso non è un problema della stessa Healin’ Good – che anzi presenta delle ottime premesse – , bensì della cattiva gestione da parte degli autori, che sia per inesperienza sia per il caos della pandemia si sono ritrovati a dover riorganizzare il proprio lavoro, con risultati spesso pessimi, dichiarando ad esempio che nulla era stato toccato per poi ritrattare di fronte all’evidenza (l’episodio estivo sulla spiaggia è stato trasmesso a dicembre!). Il mio voto è dunque 5: non può essere sufficiente per i motivi già elencati, ma non trovo giusto nemmeno che sia più basso, dato che l’affetto per il franchise e per Healin’ Good, nel bene e nel (molto) male, resta sempre