Recensione
I figli del mare
9.5/10
Recensione di Shiho Miyano
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Volevo essere trovata da qualcuno, ed è andata proprio così!
Ruka
«I figli del mare», film del 2019 che traspone il manga, omonimo, di Daisuke Igarashi, è la storia delle vacanze estive di Ruka, o meglio la storia di quella vacanza.
La storia della vacanza estiva che porta fuori dall’infanzia, la vacanza estiva in cui, sul limitare fra infanzia e adolescenza, ancora con le sbucciature sulle ginocchia, si passa attraverso mutamenti e trasformazioni. Un tòpos ricorrente e già ben esplorato nella narrativa. Ma il lungometraggio uscito dalla regia di Ayumu Watanabe è anche o soprattutto, lo scrivo senza alcuna ironia, un “pezzo di bravura”: butta in pasto allo spettatore una gran quantità di suggerimenti, richiami, allusioni e lo trasporta quasi “di peso” in un oceano stupefacente e primigenio, sotto l’incantesimo delle immagini e delle musiche, quelle bellissime uscite dal talento e dall’esperienza di Joe Hisaishi.
In questa estate, calda e vibrante, la giovane protagonista, in difficoltà a scuola e a casa, sarà chiamata a prendere parte ad un evento straordinario, coinvolta in un qualcosa di misterioso e grandioso dai due “bambini del mare” del titolo: Umi e Sora, i cui nomi evocano l’oceano e il cielo. Due fratelli diversissimi: con la gradevolezza e l'innocenza dell’infanzia il primo, con le asperità e la rudezza dell’adolescenza, il secondo. Attorno a questo trio ci sono i genitori di Ruka, evidentemente una coppia in crisi, e una piccola rosa di personaggi appena abbozzati, ognuno a rappresentare un’idea, ognuno ad aggiungere il proprio frammento alla narrazione. Il character design di Ken'ichi Konishi, aderente ai disegni di Igarashi, è molto efficace e suggestivo, anche su quei personaggi dall’espetto meno gradevole.
Quale sia questo “grande evento”, che significato abbia, ma anche cosa avvenga “realmente” e cosa no è lasciato allo spettatore: il film è volutamente criptico, dà una serie di elementi, ma non arriva fino a dare una versione univoca, e io ho avvertito questo fatto come un pregio.
Non è un film perfetto e nemmeno un film per tutti i gusti: il mio voto è tanto alto perché, l'ho scoperto guardandolo, quel che volevo da un film del genere era proprio farmi suggestionare dalle belle immagini e dalla capacità di inserire riferimenti a tante e diverse mitologie, dal saper rendere la diversità degli animali marini e l’impressione che fanno su noi umani. Certo, avessi cercato una trama solida e coerente, il mio voto sarebbe stato più basso. Perché la trama è molto inverosimile già a partire dai due fanciulli allevati in mare dai dugonghi... Arduo rendere questa storia credibile, se il regista avesse provato a farne una narrazione con pretese di congruenza, avrei probabilmente storto il naso. Così come davanti ad altri temi presenti: misticismo, panteismo (e panspermia), l'ecologismo anni ‘70, quello della teoria di Gaia. Insomma: c’erano tanti modi per raccontare questa storia e farmi arrabbiare e, invece, Ayumu Watanabe mi ha mandato in “brodo di giuggiole”. Ha realizzato un film talmente immaginifico da rendere ogni incongruenza irrilevante ai fini della fruizione: se si ama il mare, è difficile non farsi letteralmente rapire da quanto passa sulla schermo, soprattutto se lo schermo è quello di una sala cinematografica; io ho avuto modo di vederlo la prima volta così, e sono rimasta quasi senza fiato.
Ultima nota: tra i tanti temi che tocca «I figli del mare» c’è anche quello della narrazione e della parola. Se da un lato viene ribadito più volte che la parola è insufficiente a esprimere l’umano, dall’altro questo è un film sul potere della narrazione: è un film intorno a una ninna nanna, un film che raccoglie tanti racconti di diversa provenienza, che rafforza, con le immagini e la musica, proprio la parola.
Ruka
«I figli del mare», film del 2019 che traspone il manga, omonimo, di Daisuke Igarashi, è la storia delle vacanze estive di Ruka, o meglio la storia di quella vacanza.
La storia della vacanza estiva che porta fuori dall’infanzia, la vacanza estiva in cui, sul limitare fra infanzia e adolescenza, ancora con le sbucciature sulle ginocchia, si passa attraverso mutamenti e trasformazioni. Un tòpos ricorrente e già ben esplorato nella narrativa. Ma il lungometraggio uscito dalla regia di Ayumu Watanabe è anche o soprattutto, lo scrivo senza alcuna ironia, un “pezzo di bravura”: butta in pasto allo spettatore una gran quantità di suggerimenti, richiami, allusioni e lo trasporta quasi “di peso” in un oceano stupefacente e primigenio, sotto l’incantesimo delle immagini e delle musiche, quelle bellissime uscite dal talento e dall’esperienza di Joe Hisaishi.
In questa estate, calda e vibrante, la giovane protagonista, in difficoltà a scuola e a casa, sarà chiamata a prendere parte ad un evento straordinario, coinvolta in un qualcosa di misterioso e grandioso dai due “bambini del mare” del titolo: Umi e Sora, i cui nomi evocano l’oceano e il cielo. Due fratelli diversissimi: con la gradevolezza e l'innocenza dell’infanzia il primo, con le asperità e la rudezza dell’adolescenza, il secondo. Attorno a questo trio ci sono i genitori di Ruka, evidentemente una coppia in crisi, e una piccola rosa di personaggi appena abbozzati, ognuno a rappresentare un’idea, ognuno ad aggiungere il proprio frammento alla narrazione. Il character design di Ken'ichi Konishi, aderente ai disegni di Igarashi, è molto efficace e suggestivo, anche su quei personaggi dall’espetto meno gradevole.
Quale sia questo “grande evento”, che significato abbia, ma anche cosa avvenga “realmente” e cosa no è lasciato allo spettatore: il film è volutamente criptico, dà una serie di elementi, ma non arriva fino a dare una versione univoca, e io ho avvertito questo fatto come un pregio.
Non è un film perfetto e nemmeno un film per tutti i gusti: il mio voto è tanto alto perché, l'ho scoperto guardandolo, quel che volevo da un film del genere era proprio farmi suggestionare dalle belle immagini e dalla capacità di inserire riferimenti a tante e diverse mitologie, dal saper rendere la diversità degli animali marini e l’impressione che fanno su noi umani. Certo, avessi cercato una trama solida e coerente, il mio voto sarebbe stato più basso. Perché la trama è molto inverosimile già a partire dai due fanciulli allevati in mare dai dugonghi... Arduo rendere questa storia credibile, se il regista avesse provato a farne una narrazione con pretese di congruenza, avrei probabilmente storto il naso. Così come davanti ad altri temi presenti: misticismo, panteismo (e panspermia), l'ecologismo anni ‘70, quello della teoria di Gaia. Insomma: c’erano tanti modi per raccontare questa storia e farmi arrabbiare e, invece, Ayumu Watanabe mi ha mandato in “brodo di giuggiole”. Ha realizzato un film talmente immaginifico da rendere ogni incongruenza irrilevante ai fini della fruizione: se si ama il mare, è difficile non farsi letteralmente rapire da quanto passa sulla schermo, soprattutto se lo schermo è quello di una sala cinematografica; io ho avuto modo di vederlo la prima volta così, e sono rimasta quasi senza fiato.
Ultima nota: tra i tanti temi che tocca «I figli del mare» c’è anche quello della narrazione e della parola. Se da un lato viene ribadito più volte che la parola è insufficiente a esprimere l’umano, dall’altro questo è un film sul potere della narrazione: è un film intorno a una ninna nanna, un film che raccoglie tanti racconti di diversa provenienza, che rafforza, con le immagini e la musica, proprio la parola.