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Opera seconda di Miyazaki junior, “La collina dei papaveri” è uno slice of life ambientato a ridosso delle olimpiadi di Tokyo del 1964, in una città portuale del Giappone.

Il comparto tecnico, avendo il “bollino” Studio Ghibli, è inevitabilmente di tutto rispetto: i fondali sono magnifici, il chara design morbido e affusolato, bellissimi i colori, i movimenti in generale sono fluidi, anche se le camminate dei personaggi sono un po’ strane (hanno un non so che di militaresco).

Non conosco le motivazioni che hanno spinto lo staff a scegliere questa epoca, se è un periodo di tempo che ha un qualche valore affettivo per lo sceneggiatore, se si voleva promuovere la nuova candidatura di Tokyo alle olimpiadi o per un semplice vezzo, fatto sta che, per quanto mi riguarda, tale scelta si è dimostrata azzeccata: difficilmente si vedono in giro opere cinematografiche recenti riconducibili a quel periodo e, riguardo agli anime, penso sia un unicum. È molto bello vedere un mondo in pieno boom industriale, ma senza tecnologie informatiche, e dove quindi si usano i volantini invece che i post sui social; le bandiere piuttosto che i messaggini; i tram in sostituzione della metro; dove le stampanti sono rigorosamente “umane” e, per immortalare le proprie gesta, non ci sono né YouTube né TikTok, ma bisogna accontentarsi di una semplice foto.

La storia in sé, per una serie di motivi, la definirei “tiepida”. La parte più vivace ruota intorno a un vecchio caseggiato scolastico che deve essere abbattuto, e un gruppo di studenti “ribelli” che cerca di impedire tale accadimento. Gli eventi associati a questa “battaglia” con le autorità avranno il compito di alleggerire la narrazione, regalandoci qualche simpatico sketch, e saranno l’espediente utilizzato dagli autori per far conoscere i due ragazzi. Se l’intreccio che collega la coppia è anche interessante, non si può non notare che proprio il rapporto tra i due sia il punto debole di questo film.

Nessuno conosce bene la formula che permette di creare quella giusta empatia tra lo spettatore e i protagonisti di una storia, dato che opere apparentemente simili possono ricevere giudizi diametralmente opposti da parte della critica e/o del pubblico. Di sicuro, in caso di vicende sentimentali, c’è bisogno di una qualche sorta di ostacolo che si oppone all’agognato “Happy End“ (di solito è un villan, ma non necessariamente), e qua l’ostacolo c’è, è ben congegnato, e va a scavare nella nascita stessa dei ragazzi; serve poi un ottimo comparto tecnico, che ovviamente qui è eccelso, compresa l’ottima OST a cura di Satoshi Takebe, che riesce a dare un grande supporto alle resa emotiva della visione; non deve poi mancare il tempo, cioè pagine e pagine (per i libri e manga) o minuti su minuti (per film, anime e serie) che contribuiscono a creare quel legame affettivo e di empatia tra chi assiste alla storia e gli eroi di turno. Ma il primo problema de “La collina dei papaveri” è proprio questo, il tempo, dato che dura appena ottantasette minuti, cioè troppo poco. Quello che però assolutamente non può mancare in un’avventura con una componente romantica è quel clima di tensione continua tra i protagonisti fatto di piccoli conflitti, timidi tentativi di approccio, repentini allontanamenti, grandi litigate, tanti tentennamenti... e tutto ciò lo si ottiene rendendo i due molto diversi tra di loro o addirittura opposti: uno estroverso, l’altro timido; uno popolare, l’altro emarginato; uno ricco, l’altro povero; uno smidollato, l’altro inquadrato; uno solare, l’altro tenebroso; uno innamorato perso, l’altro “freddino”, insomma come il giorno e la notte o come il sole e la luna. A quel punto i due personaggi principali, “caricati” a dovere delle loro caratteristiche salienti, saranno come i poli opposti di una batteria e, una volta entrati in contatto, faranno scorrere la corrente necessaria a tenere forte la presa sul pubblico. Il problema di questo anime sono proprio i protagonisti Umi e Shun, perché sono troppo simili, troppo inquadrati, troppo bravi ragazzi: se nei primi istanti del loro incontro Shun sembrerà destinato a recitare il ruolo dello scapestrato, mentre lei avrà riservato quello della ragazza più timida e introversa, ben presto il giovane sarà messo a sedere su una polverosa scrivania, diventerà tremendamente razionale, lucido e distaccato, quindi diverrà quasi un clone “caratteriale” di lei. Ciò renderà la loro interazione piatta, monocorde... per farla breve, “moscia”. Saranno come una batteria scarica o addirittura una batteria con tutti e due i poli “positivi”, e non riusciranno a trasmettere quella verve, quel brio, quelle scintille necessari per rendere questo spaccato di vita spumeggiante e godibile, e le poche scene di “disimpegno” saranno affidate a personaggi secondari loro compagni di scuola.

Ovviamente non c’è modo di sapere le ragioni che hanno portato alla realizzazione di questa trama (tratta comunque da un manga degli anni ‘80), ma mi viene da pensare che, essendo un lungometraggio che ha come target “per tutti”, molto probabilmente si è deciso di livellare i picchi emotivi ed edulcorare i comportamenti “scellerati” tipici della gioventù, ottenendo però, come effetto collaterale, il non felice risultato di aver creato un racconto che narra di drammi, ma che li colloca lontani nel tempo; che mostra la ribellione giovanile, ma la imbriglia in un contesto istituzionale; che cerca di far suscitare le emozioni, evitando però rigorosamente gli eccessi, e soprattutto che crea e disfa, in pochi passaggi, il personaggio del ribelle, perché magari poteva essere diseducativo per i più giovani. Sembra in sostanza una storia che “sorge” libera come un ruscello di montagna, ma che viene poi incanalata all’interno di argini molto alti e stringenti lungo tutto il suo (breve) percorso, e che giunge placidamente verso la meta, senza affrontare particolari curve, pericolose rapide o vigorose cascate.

Se dietro ad esso non ci fosse stata “l’impalcatura” Ghibli, molto probabilmente non avrebbe raggiunto la sufficienza. Voto: 7.