Recensione
Il bambino di Dio
8.0/10
Recensione di DarkSoulRead
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“Sono nato così, uscendo dal buco del culo di mia madre. Non so da dove sono venuto. Non so perché sono nato. Quando mi sono svegliato stavo fluttuando nello stomaco di mia madre. Non mi trovavo nel tepore del liquido amniotico, ma in un mare acido di succhi gastrici. I miei fratelli e sorelle…furono digeriti uno a uno. Con codardia le crudeli pieghe dello stomaco ripetevano in continuazione piccole contrazioni. Ho assaporato il terrore. Credevo che sarei stato digerito presto anch’io. È stato il primo sentimento che ho provato. Per tutta la mia vita… ho provato quell’unico sentimento. Conficcato nella parete dello stomaco di mia madre… ero avvolto dalla sua membrana mucosa… che divenne la mia pelle e mi protesse. Nella parete dello stomaco di mia madre aspettavo quel momento con terrore. E infine nacqui. Venni defecato. Il sole nero era mia madre e il mio Dio, sporco di sangue e merda. Il Dio della vendetta. La mia storia inizia da qui. Sono il bambino del sangue e della corruzione. Sono il bambino di Dio”.
“Kami no Kodomo” è l’escatologica e raggelante parabola di un anticristo pluriomicida completamente antitetico al Gesù cristiano.
La storia è raccontata in prima persona e l’assenza dei balloon in favore dell’io narrante, ormai vero e proprio marchio di fabbrica del duo Nishioka, ci proietta direttamente nella mente del serial killer: un fanciullo androgino nato sotto l’effige del sole nero (metafora dell’ano di sua madre), totalmente anaffettivo e imperturbabile che nasconde il suo terrore dietro un’imperscrutabile maschera umana. Esplicativa la prima pagina, in cui, quella che sembra una culla, è in realtà il bidet sozzo e fetido in cui è stato defecato.
Seguiamo l’assassino dalla sua raccapricciante nascita, passando per un’infanzia malata altamente disturbata in cui decapita il suo gatto, alla scoperta del sesso attraverso la necrofilia, giungendo ai primi omicidi, alle carneficine, alla fondazione di una setta, fino alla spietata e inesorabile morte.
“Il bambino di Dio” è un racconto straziante; l’opera scandalo dei fratelli Nishioka risulta un affresco granguignolesco denso di simbolismo religioso e di tetre vibes baudelairiane, a metà tra il cinismo di Lars von Trier e la follia visionaria del Kubrick di “Arancia meccanica”, che impregnano il ritratto di un magnetico fascino oscuro.
Tra bimbi vessati costretti a mangiare le proprie feci, infanticidi, cannibalismo, stupri, pedofilia, orge e trasgressione estrema, a tratti si rivivono le atmosfere de “Le 120 giornate di Sodoma”, d’altronde è proprio de Sade una delle principali fonti d’ispirazione del duo, come si può facilmente intuire dalle ripetute stilettate degli autori al cristianesimo.
Non è un caso che un autore sui generis come Shuzo Oshimi abbia identificato i Nishioka Kyodai come sue figure di riferimento, in quest’opera nello specifico troviamo diversi concetti ripresi poi dalla poetica di Oshimi nel suo agghiacciante “Tracce di sangue”.
“Per integrarsi con quella che viene definita società serve una tecnica. Non distinguersi.
Ma non basta starsene tranquilli. Questo può sortire l'effetto opposto. Bisogna essere mediocri.
Essere mediocremente felici. Mediocremente seri. Mediocremente stupidi. Mediocremente docili. Trascorrere i giorni con un sorriso tenue e vigliacco.
Come rifiuto a qualsiasi relazione con questa società, approfittai di questa tecnica. Per uno come me, per cui nulla ha significato, questa farsa non era nemmeno dolorosa."
Oltre alle taglienti critiche mosse alla religione cristiana, i fratelli Nishioka mettono alla gogna una società ipocrita e nichilista, che finge di non vedere i cadaveri in mezzo alla strada pur di non destabilizzare la propria quiete routinaria. Una società elitaria e menefreghista, a cui non tangono affatto i massacri perpetrati a una classe minore come quella dei senzatetto.
I personaggi appaiono marionette intrappolate da burattinai sadici e perversi che muovono i fili per il solo gusto di vederle animarsi in un universo folle e allucinato, burattini che, una volta constatata l’impossibilità di scappare dal macabro spettacolo, finiscono per impiccarsi con quegli stessi fili d’odio.
Tornano temi come l’alienazione, il malessere, l’antropofagia, già affrontati dai Nishioka nelle loro opere precedenti, in particolare in “Viaggio alla Fine del Mondo”, confermandosi autori ricorsivi e dalla semantica autoriale ben definita, sia nelle argomentazioni trattate che nel confezionamento grafico.
I disegni di Chiaki Nishioka, dall’ispirazione cubista, vanno in connessione ossimorica con l’efferatezza estrema del racconto, nascondendo la brutalità delle vicende sotto un tratto pittorico naive da fiaba dark burtoniana.
“Kami no Kodomo” è la favola maledetta più inquietante e malata in cui possiate imbattervi, una storia di vendetta, di odio, permeata di perfidia, intrisa della malvagità pura insita negli spiriti immondi; una discesa verso gli inferi distillata di nichilismo e malignità. Un’opera immorale, oltraggiosa, che ci inabissa in un cul-de-sac plumbeo di impudicizia, da una genesi blasfema fino ad un demistificatorio epilogo, con reminiscenze della Moto Hagio all’apice del suo sadismo ed una lieve grattata dell’Ingmar Bergman più sacrilego e dissacrante che si ricordi.
“Kami no Kodomo” è l’escatologica e raggelante parabola di un anticristo pluriomicida completamente antitetico al Gesù cristiano.
La storia è raccontata in prima persona e l’assenza dei balloon in favore dell’io narrante, ormai vero e proprio marchio di fabbrica del duo Nishioka, ci proietta direttamente nella mente del serial killer: un fanciullo androgino nato sotto l’effige del sole nero (metafora dell’ano di sua madre), totalmente anaffettivo e imperturbabile che nasconde il suo terrore dietro un’imperscrutabile maschera umana. Esplicativa la prima pagina, in cui, quella che sembra una culla, è in realtà il bidet sozzo e fetido in cui è stato defecato.
Seguiamo l’assassino dalla sua raccapricciante nascita, passando per un’infanzia malata altamente disturbata in cui decapita il suo gatto, alla scoperta del sesso attraverso la necrofilia, giungendo ai primi omicidi, alle carneficine, alla fondazione di una setta, fino alla spietata e inesorabile morte.
“Il bambino di Dio” è un racconto straziante; l’opera scandalo dei fratelli Nishioka risulta un affresco granguignolesco denso di simbolismo religioso e di tetre vibes baudelairiane, a metà tra il cinismo di Lars von Trier e la follia visionaria del Kubrick di “Arancia meccanica”, che impregnano il ritratto di un magnetico fascino oscuro.
Tra bimbi vessati costretti a mangiare le proprie feci, infanticidi, cannibalismo, stupri, pedofilia, orge e trasgressione estrema, a tratti si rivivono le atmosfere de “Le 120 giornate di Sodoma”, d’altronde è proprio de Sade una delle principali fonti d’ispirazione del duo, come si può facilmente intuire dalle ripetute stilettate degli autori al cristianesimo.
Non è un caso che un autore sui generis come Shuzo Oshimi abbia identificato i Nishioka Kyodai come sue figure di riferimento, in quest’opera nello specifico troviamo diversi concetti ripresi poi dalla poetica di Oshimi nel suo agghiacciante “Tracce di sangue”.
“Per integrarsi con quella che viene definita società serve una tecnica. Non distinguersi.
Ma non basta starsene tranquilli. Questo può sortire l'effetto opposto. Bisogna essere mediocri.
Essere mediocremente felici. Mediocremente seri. Mediocremente stupidi. Mediocremente docili. Trascorrere i giorni con un sorriso tenue e vigliacco.
Come rifiuto a qualsiasi relazione con questa società, approfittai di questa tecnica. Per uno come me, per cui nulla ha significato, questa farsa non era nemmeno dolorosa."
Oltre alle taglienti critiche mosse alla religione cristiana, i fratelli Nishioka mettono alla gogna una società ipocrita e nichilista, che finge di non vedere i cadaveri in mezzo alla strada pur di non destabilizzare la propria quiete routinaria. Una società elitaria e menefreghista, a cui non tangono affatto i massacri perpetrati a una classe minore come quella dei senzatetto.
I personaggi appaiono marionette intrappolate da burattinai sadici e perversi che muovono i fili per il solo gusto di vederle animarsi in un universo folle e allucinato, burattini che, una volta constatata l’impossibilità di scappare dal macabro spettacolo, finiscono per impiccarsi con quegli stessi fili d’odio.
Tornano temi come l’alienazione, il malessere, l’antropofagia, già affrontati dai Nishioka nelle loro opere precedenti, in particolare in “Viaggio alla Fine del Mondo”, confermandosi autori ricorsivi e dalla semantica autoriale ben definita, sia nelle argomentazioni trattate che nel confezionamento grafico.
I disegni di Chiaki Nishioka, dall’ispirazione cubista, vanno in connessione ossimorica con l’efferatezza estrema del racconto, nascondendo la brutalità delle vicende sotto un tratto pittorico naive da fiaba dark burtoniana.
“Kami no Kodomo” è la favola maledetta più inquietante e malata in cui possiate imbattervi, una storia di vendetta, di odio, permeata di perfidia, intrisa della malvagità pura insita negli spiriti immondi; una discesa verso gli inferi distillata di nichilismo e malignità. Un’opera immorale, oltraggiosa, che ci inabissa in un cul-de-sac plumbeo di impudicizia, da una genesi blasfema fino ad un demistificatorio epilogo, con reminiscenze della Moto Hagio all’apice del suo sadismo ed una lieve grattata dell’Ingmar Bergman più sacrilego e dissacrante che si ricordi.