Recensione
The zen diary
8.5/10
Attraverso il pacato e poetico "The Zen Diary", si viene a conoscenza di una vita umana placida e rispettosa che si muove in simbiosi con la natura e con l’avvicendarsi delle stagioni. Tsutomu è uno scrittore che vive in una vita isolata in montagna, quasi da eremita, in una casa tradizionale dal tetto in paglia. Fino all’età di 13 anni ha vissuto in un tempio buddista dove ha appreso, dai monaci, l’arte della cucina vegana: elevare ciò che la terra ci dona a qualcosa di sublime e ricercato, senza però elaborate preparazioni da cucina stellata, ma seguendo la più semplice tradizione contadina del Giappone.
Il film è scandito dal susseguirsi delle stagioni giapponesi, che non hanno sempre un corrispettivo con quelle occidentali, e dai frutti che la terra dona, che siano essi di raccolta nei boschi che circondano la dimora del protagonista, o coltivati dallo stesso Tsutomu nel piccolo orto che cura con amore e devozione tutto l’anno.
Interessante è apprendere come i prodotti vegetali vengono lavati, insaporiti, cucinati e curati per essere poi gustati con venerazione e gratitudine. In Giappone cucinare è un'arte come può esserlo la pittura; stare a tavola condividendo e assaporando ciò che ci viene offerto è un atto di riconoscenza verso le divinità che permeano la natura, pertanto vanno presi i giusti tempi per goderne appieno.
Da un occhio che non conosce questa sottile linea che unisce la cultura del popolo giapponese all’arte culinaria, l’attenzione e le movenze che non sono mai causali, possono sembrare esagerate e ridicole. Tuttavia per elevare la propria arte a qualcosa di superiore, trascendentale e prelibato c’è bisogno di dedizione e amore, di tempo per cogliere ogni dettaglio e non lasciare indietro nessun passaggio. Il film non ha una vera e propria trama, ci accompagna per mano, in un anno di vita di agricoltore e raccoglitore del signor Tsutomo. Al suo fianco si sente forte la presenza della sua editor che lo supporta nella vita e nella stesura del suo romanzo The Zen Diary, che da il titolo anche alla pellicola. Inutile sottolineare come gli attori Kenji Sawada e Takako Matsu siano perfetti nei ruoli che ricoprono, in grado di trasmettere quell’amore per le cose che crescono in modo genuino e sapiente.
I dialoghi sono pressoché radi e incentrati soprattutto su pensieri personali del protagonista, come riflessioni interiori o ricordi che gli tornano alla mente mentre assapora un cibo particolare o visita un luogo in cui ogni anno è solito tornare, per la raccolta di un qualche prodotto spontaneo che la terra gli concede.
La regia si concentra molto sullo scorrere delle stagioni, inquadrando la natura nelle sue minuzie che ne sottolineano il mutamento. La fotografia è chiara, capace di trasmettere un’emozione pura e solenne. Mentre le musiche sono tenui e mai troppo invadenti.
Il film è lento, si prende il tempo che serve per raccontare la vita di un essere umano nel ciclo di un anno; le cose belle e brutte che accadono vengono raccontate con attenzione, così come con meticolosità è espressa la gioia di condividere del buon cibo.
Forse non è un film apprezzabile da tutti, ma se si ama apprendere dei modi di fare di altre culture, lasciandosi cullare dal passare nitido del tempo, allora diviene qualcosa di imperdibile e sofisticato da vedere.
Il film è scandito dal susseguirsi delle stagioni giapponesi, che non hanno sempre un corrispettivo con quelle occidentali, e dai frutti che la terra dona, che siano essi di raccolta nei boschi che circondano la dimora del protagonista, o coltivati dallo stesso Tsutomu nel piccolo orto che cura con amore e devozione tutto l’anno.
Interessante è apprendere come i prodotti vegetali vengono lavati, insaporiti, cucinati e curati per essere poi gustati con venerazione e gratitudine. In Giappone cucinare è un'arte come può esserlo la pittura; stare a tavola condividendo e assaporando ciò che ci viene offerto è un atto di riconoscenza verso le divinità che permeano la natura, pertanto vanno presi i giusti tempi per goderne appieno.
Da un occhio che non conosce questa sottile linea che unisce la cultura del popolo giapponese all’arte culinaria, l’attenzione e le movenze che non sono mai causali, possono sembrare esagerate e ridicole. Tuttavia per elevare la propria arte a qualcosa di superiore, trascendentale e prelibato c’è bisogno di dedizione e amore, di tempo per cogliere ogni dettaglio e non lasciare indietro nessun passaggio. Il film non ha una vera e propria trama, ci accompagna per mano, in un anno di vita di agricoltore e raccoglitore del signor Tsutomo. Al suo fianco si sente forte la presenza della sua editor che lo supporta nella vita e nella stesura del suo romanzo The Zen Diary, che da il titolo anche alla pellicola. Inutile sottolineare come gli attori Kenji Sawada e Takako Matsu siano perfetti nei ruoli che ricoprono, in grado di trasmettere quell’amore per le cose che crescono in modo genuino e sapiente.
I dialoghi sono pressoché radi e incentrati soprattutto su pensieri personali del protagonista, come riflessioni interiori o ricordi che gli tornano alla mente mentre assapora un cibo particolare o visita un luogo in cui ogni anno è solito tornare, per la raccolta di un qualche prodotto spontaneo che la terra gli concede.
La regia si concentra molto sullo scorrere delle stagioni, inquadrando la natura nelle sue minuzie che ne sottolineano il mutamento. La fotografia è chiara, capace di trasmettere un’emozione pura e solenne. Mentre le musiche sono tenui e mai troppo invadenti.
Il film è lento, si prende il tempo che serve per raccontare la vita di un essere umano nel ciclo di un anno; le cose belle e brutte che accadono vengono raccontate con attenzione, così come con meticolosità è espressa la gioia di condividere del buon cibo.
Forse non è un film apprezzabile da tutti, ma se si ama apprendere dei modi di fare di altre culture, lasciandosi cullare dal passare nitido del tempo, allora diviene qualcosa di imperdibile e sofisticato da vedere.