Shadow of the Colossus
"La perfezione si raggiunge non quando non c'è più niente da aggiungere, ma quando non vi è più niente da togliere" diceva Antoine de Saint-Exupery, in una riflessione che riassume perfettamente il capolavoro di Fumito Ueda e del suo storico team.
Sequel, prequel o forse capitolo totalmente slegato ma ambientato nello stesso universo narrativo, "Shadow of the Colossus" rappresenta uno degli apici della storia videoludica moderna, vetta artistica che da quel lontano 2005 ha elevato il medium di appartenenza e continua ad affascinare schiere di nuovi giocatori.
L’essenzialità era una qualità che Ueda aveva dimostrato di possedere e di saper padroneggiare fin da “Ico”, sua opera d’esordio, ma qui tocca un livello di perfezione mai raggiunto da giochi successivi: narrazione silenziosa e quasi assente, HUD e indicatori del tutto eliminati o inseriti tramite scelte di design meticolosamente ponderate; tutti questi elementi concorrono all’immersione del giocatore in un mondo affascinante e complesso, nel quale non viene condotto per mano dall’autore bensì gettato direttamente nel mezzo.
La trama, arcinota in verità, è presto riassunta: un giovane di nome Wander, per resuscitare la sua amata Mono, morta in seguito ad una misteriosa malattia, si avventura nelle Terre Proibite, sinistra regione del mondo fantasy in cui è ambientato il gioco. A fargli compagnia sono il cavallo Agro e una spada dai poteri leggendari, trafugata alla sua tribù, con cui Wander dovrà compiere una pericolosa missione, per conto della divinità chiamata Dormin: uccidere 16 colossi, che si aggirano nella landa desolata.
Poco altro verrà detto al giocatore, nel corso delle dieci ore circa che serviranno per portare a termine il gioco, e la maggior parte dei misteri non verranno minimamente svelati oppure riceveranno delle risposte alquanto criptiche. La scelta di non fornire una chiave interpretativa immediata si rivela una delle caratteristiche vincenti, che ha contribuito ad accrescere il fascino dell’opera. Come il taciturno protagonista, anche noi player saremo confusi e incerti su quello che ci viene detto di fare: chi sono i colossi e perché vanno eliminati? È giusto ucciderli? Il nostro desiderio alla fine sarà esaudito? Domande che Wander si porterà dentro fino alle ultime fasi del gioco, guidato soltanto da un sentimento totalizzante: l’amore.
Ueda, a partire da questo assunto, realizza una sensazionale decostruzione dell’archetipico viaggio dell’eroe, in cui l’epica e l’azione spettacolare lasciano il posto alla riflessione e all’introspezione più profonda: non c’è nessun intrepido guerriero senza macchia, ma un ladro che ha trasgredito le leggi del suo popolo e che è arrivato tardi, quando ormai non c’è più nessuna principessa da salvare. Quella che insegue Wander è la vana illusione di poter porre rimedio ad un destino scritto, senza dover pagare alcun prezzo in cambio. Tramite una metafora tanto ispirata, “Shadow of the Colossus” parla direttamente a noi giocatori, insegnandoci quanto nella vita ogni scelta comporti un inevitabile sacrificio.
Di fronte ad una concezione così sfumata del confine fra bene e male, anche il ruolo canonico dell’antagonista subisce una modifica sostanziale: i mastodontici colossi reagiscono, tentando di uccidere Wander, ma per semplice autodifesa dagli attacchi del giovane. Non ci sono quindi dei veri nemici da affrontare, bensì personaggi ambigui che restano indecifrabili così come di difficile comprensione è la realtà in cui ci muoviamo.
Anche l’ambientazione contribuisce a trasmettere in pieno la sensazione di smarrimento: non c’è nessuno, all’infuori di Wander e dei colossi, a popolare la malinconica piana abbandonata delle Terre Proibite. Solamente ruderi di un’antica civiltà scomparsa, crepacci e rilievi frastagliati spezzano la monotonia di un paesaggio sempre percorso da un alito di vento. Il senso di decadenza e desolazione assale il giocatore a più riprese, nel sentire il rumore degli zoccoli di Agro che si propaga fino ai monti più lontani: a dominare quei luoghi è rimasto il silenzio e tutto finisce per essere smitizzato.
Allo stesso modo, il traguardo da raggiungere non ha niente di solenne ma assume più i connotati della disperata ricerca di una consolazione: in un contesto tipico come quello del videogioco, che mira a ricompensare generosamente il giocatore per gli sforzi fatti nel conseguimento di un determinato obiettivo, “Shadow of the Colossus” si pone in netta controtendenza. Non abbiamo nessuna certezza che la povera Mono venga resuscitata, soltanto il nostro desiderio di scoprire cosa accadrà è il motore del gioco, costantemente alimentato dal fascino che sprigiona ogni piccolo dettaglio.
Non solo di narrazione, però, vive un videogioco ma anche di design e persino qui il confronto con tante altre produzioni risulta impari: l’ambientazione è superba nella studiata semplicità e i colossi si fanno tutti ricordare per la loro caratterizzazione fisica peculiare, restando scolpiti a forza negli occhi dei giocatori; si muovono silenziosi e solenni, sia i grandi che i piccoli, custodi di un segreto che intuiamo essere molto più grande di noi, inquietanti ma al tempo stesso tremendamente poetici. Ogni sfida che ci viene proposta per abbatterli è uno stimolante puzzle alla ricerca dei punti deboli di ciascuno; dovremo aguzzare l’ingegno per capire come poterli eliminare, senza rimetterci la vita. Tali sono gli esempi di quel mirabile design sottrattivo, che è marchio di fabbrica di Ueda.
Alcuni innegabili inciampi tecnici a livello di sistema di controllo, rendono alcune parti a tratti frustranti, ma simili sviste nulla possono di fronte alla magnificenza del prodotto in generale; siamo comunque diverse spanne sopra ad “Ico”, dove a cospirare contro il giocatore contribuiva anche la pessima telecamera ai limiti dell’ingestibile.
A sostenere la produzione ci pensa inoltre una colonna sonora eccelsa, mai invadente e sempre inserita al momento giusto, ricca di brani memorabili.
In conclusione, le tante parole spese qui sopra riescono a rendere ben poca giustizia ad un gioco che ha lasciato un solco profondo nella sua e nelle successive generazioni videoludiche; solo sperimentandolo si potrà avere prova dell’inossidabile valore in esso contenuto. Attraverso il suo lavoro, Fumito Ueda ha dimostrato non solo di aver appreso la lezione miyamotiana della continua alternanza fra densità e rarefazione, ma anche di essere un vero poeta di immagini.
“Shadow of the Colossus” è, a conti fatti, proprio questo: una poesia di sentimenti delicati e commoventi, espressi sottovoce e sussurrati all’orecchio di quei pochi che hanno la voglia di ascoltarli.
Sequel, prequel o forse capitolo totalmente slegato ma ambientato nello stesso universo narrativo, "Shadow of the Colossus" rappresenta uno degli apici della storia videoludica moderna, vetta artistica che da quel lontano 2005 ha elevato il medium di appartenenza e continua ad affascinare schiere di nuovi giocatori.
L’essenzialità era una qualità che Ueda aveva dimostrato di possedere e di saper padroneggiare fin da “Ico”, sua opera d’esordio, ma qui tocca un livello di perfezione mai raggiunto da giochi successivi: narrazione silenziosa e quasi assente, HUD e indicatori del tutto eliminati o inseriti tramite scelte di design meticolosamente ponderate; tutti questi elementi concorrono all’immersione del giocatore in un mondo affascinante e complesso, nel quale non viene condotto per mano dall’autore bensì gettato direttamente nel mezzo.
La trama, arcinota in verità, è presto riassunta: un giovane di nome Wander, per resuscitare la sua amata Mono, morta in seguito ad una misteriosa malattia, si avventura nelle Terre Proibite, sinistra regione del mondo fantasy in cui è ambientato il gioco. A fargli compagnia sono il cavallo Agro e una spada dai poteri leggendari, trafugata alla sua tribù, con cui Wander dovrà compiere una pericolosa missione, per conto della divinità chiamata Dormin: uccidere 16 colossi, che si aggirano nella landa desolata.
Poco altro verrà detto al giocatore, nel corso delle dieci ore circa che serviranno per portare a termine il gioco, e la maggior parte dei misteri non verranno minimamente svelati oppure riceveranno delle risposte alquanto criptiche. La scelta di non fornire una chiave interpretativa immediata si rivela una delle caratteristiche vincenti, che ha contribuito ad accrescere il fascino dell’opera. Come il taciturno protagonista, anche noi player saremo confusi e incerti su quello che ci viene detto di fare: chi sono i colossi e perché vanno eliminati? È giusto ucciderli? Il nostro desiderio alla fine sarà esaudito? Domande che Wander si porterà dentro fino alle ultime fasi del gioco, guidato soltanto da un sentimento totalizzante: l’amore.
Ueda, a partire da questo assunto, realizza una sensazionale decostruzione dell’archetipico viaggio dell’eroe, in cui l’epica e l’azione spettacolare lasciano il posto alla riflessione e all’introspezione più profonda: non c’è nessun intrepido guerriero senza macchia, ma un ladro che ha trasgredito le leggi del suo popolo e che è arrivato tardi, quando ormai non c’è più nessuna principessa da salvare. Quella che insegue Wander è la vana illusione di poter porre rimedio ad un destino scritto, senza dover pagare alcun prezzo in cambio. Tramite una metafora tanto ispirata, “Shadow of the Colossus” parla direttamente a noi giocatori, insegnandoci quanto nella vita ogni scelta comporti un inevitabile sacrificio.
Di fronte ad una concezione così sfumata del confine fra bene e male, anche il ruolo canonico dell’antagonista subisce una modifica sostanziale: i mastodontici colossi reagiscono, tentando di uccidere Wander, ma per semplice autodifesa dagli attacchi del giovane. Non ci sono quindi dei veri nemici da affrontare, bensì personaggi ambigui che restano indecifrabili così come di difficile comprensione è la realtà in cui ci muoviamo.
Anche l’ambientazione contribuisce a trasmettere in pieno la sensazione di smarrimento: non c’è nessuno, all’infuori di Wander e dei colossi, a popolare la malinconica piana abbandonata delle Terre Proibite. Solamente ruderi di un’antica civiltà scomparsa, crepacci e rilievi frastagliati spezzano la monotonia di un paesaggio sempre percorso da un alito di vento. Il senso di decadenza e desolazione assale il giocatore a più riprese, nel sentire il rumore degli zoccoli di Agro che si propaga fino ai monti più lontani: a dominare quei luoghi è rimasto il silenzio e tutto finisce per essere smitizzato.
Allo stesso modo, il traguardo da raggiungere non ha niente di solenne ma assume più i connotati della disperata ricerca di una consolazione: in un contesto tipico come quello del videogioco, che mira a ricompensare generosamente il giocatore per gli sforzi fatti nel conseguimento di un determinato obiettivo, “Shadow of the Colossus” si pone in netta controtendenza. Non abbiamo nessuna certezza che la povera Mono venga resuscitata, soltanto il nostro desiderio di scoprire cosa accadrà è il motore del gioco, costantemente alimentato dal fascino che sprigiona ogni piccolo dettaglio.
Non solo di narrazione, però, vive un videogioco ma anche di design e persino qui il confronto con tante altre produzioni risulta impari: l’ambientazione è superba nella studiata semplicità e i colossi si fanno tutti ricordare per la loro caratterizzazione fisica peculiare, restando scolpiti a forza negli occhi dei giocatori; si muovono silenziosi e solenni, sia i grandi che i piccoli, custodi di un segreto che intuiamo essere molto più grande di noi, inquietanti ma al tempo stesso tremendamente poetici. Ogni sfida che ci viene proposta per abbatterli è uno stimolante puzzle alla ricerca dei punti deboli di ciascuno; dovremo aguzzare l’ingegno per capire come poterli eliminare, senza rimetterci la vita. Tali sono gli esempi di quel mirabile design sottrattivo, che è marchio di fabbrica di Ueda.
Alcuni innegabili inciampi tecnici a livello di sistema di controllo, rendono alcune parti a tratti frustranti, ma simili sviste nulla possono di fronte alla magnificenza del prodotto in generale; siamo comunque diverse spanne sopra ad “Ico”, dove a cospirare contro il giocatore contribuiva anche la pessima telecamera ai limiti dell’ingestibile.
A sostenere la produzione ci pensa inoltre una colonna sonora eccelsa, mai invadente e sempre inserita al momento giusto, ricca di brani memorabili.
In conclusione, le tante parole spese qui sopra riescono a rendere ben poca giustizia ad un gioco che ha lasciato un solco profondo nella sua e nelle successive generazioni videoludiche; solo sperimentandolo si potrà avere prova dell’inossidabile valore in esso contenuto. Attraverso il suo lavoro, Fumito Ueda ha dimostrato non solo di aver appreso la lezione miyamotiana della continua alternanza fra densità e rarefazione, ma anche di essere un vero poeta di immagini.
“Shadow of the Colossus” è, a conti fatti, proprio questo: una poesia di sentimenti delicati e commoventi, espressi sottovoce e sussurrati all’orecchio di quei pochi che hanno la voglia di ascoltarli.