Quando il primo The Evil Within uscì, ormai tre anni or sono, nessuno si stupì dell’evidente citazionismo e del recupero di stilemi ludici vecchi di almeno due generazioni di console. Prodotto della mente di Shinji Mikami, game designer al quale dobbiamo a tutti gli effetti lo sdoganamento del genere survival horror, il titolo si configurava spesso e volentieri come un “best of” dell’autore giapponese, denso com’era di situazioni familiari e tropi già utilizzati nei suoi precedenti lavori, primo fra tutti quella vera e propria rivoluzione che risponde al nome di Resident Evil 4. Eppure, l’opera del team di Tango Gameworks non mancava di qualità, costellata da sprazzi di grande fascino e in generale da tanta nostalgia per una certa tipologia di survival horror, quella di fine anni ’90, che non è mai stata veramente dimenticata dagli appassionati del genere.
Lo sviluppatore giapponese ci riprova ora con The Evil Within 2, seguito diretto a tre anni di distanza dal precedente episodio, disponibile su PC, Xbox One e PlayStation 4 (quest’ultima è la versione testata). E ciò che colpisce immediatamente è la volontà di costruire sulle basi del predecessore migliorandole, affinando i punti più grezzi e costruendo una propria, più precisa identità; questa volta, d’altronde, Mikami lascia da parte il ruolo di game director al collega John Johanas (già responsabile degli ottimi DLC The Assignment e The Consequence), limitandosi ad un ruolo di supervisione generale. Il risultato è, quindi, che questo nuovo capitolo della serie si configura non come un semplice “more of the same”, ma come una decisa evoluzione sotto molti aspetti, che pur mantenendo la struttura e l’impostazione classici del genere osa inserire elementi nuovi e coerenti, evitando l’errore dell’eccessiva referenzialità della scorsa iterazione ma mantenendo al tempo stesso numerosi gli omaggi al survival horror d’annata. Non disdegnando neppure di alzare l’asticella per quanto riguarda l’intreccio e sceneggiatura.
E a proposito di trama, gli eventi di The Evil Within 2 costituiscono una diretta conseguenza di quelli già vissuti tre anni fa; va da sé, quindi, che gli spoiler in questa recensione relativi al gioco precedente saranno numerosi e inevitabili. Con quest’ultimo, infatti, c’è una continuità fortissima – trattandosi, a tutti gli effetti, di un racconto diviso in due parti – e chi pensa di poter iniziare direttamente dal titolo più recente è destinato a rimanere confuso e spaesato: il gioco prende il via qualche anno dopo la fine del primo The Evil Within, con il protagonista Sebastian Castellanos sprofondato nei meandri dell’alcolismo in seguito agli incubi vissuti nel macchinario STEM, una sorta di simulazione virtuale alla Matrix; all’improvviso, spunta la vecchia partner di Sebastian Julie Kidman, con una sorpresa che distrugge le certezze del nostro ex-detective: la figlia Lily, creduta morta in un incidente, è in realtà viva e tenuta in custodia dalla corporazione Mobius, creatrice tra l’altro di una nuova versione dello STEM. La bambina è intrappolata dentro la macchina, e proprio a Sebastian spetterà il compito di recuperarla, con il destino che sembra finalmente offrirgli una possibilità di riscatto – il nostro eroe, infatti, è afflitto da un profondo senso di colpa causato dalla “morte” accidentale della figlia. La tecnologia dello STEM, però, è inaffidabile e caotica, e il mondo fittizio creato dalla Mobius nella mente degli individui collegati, ovvero Union, modello classico di cittadina americana, è caduto preda dell’anarchia e della follia.
La stessa follia sembra contraddistinguerne gli abitanti, trasformati in zombie e mostri raccapriccianti la cui morfologia si conferma, ancora una volta, come uno dei punti forti del lavoro di design dietro al gioco, sfoggiando una creatività decisamente sopraffina che però non è semplicemente fine a sé stessa: i nemici di The Evil Within 2, essendo costrutti nati dall’immaginazione, sono rappresentazioni fisiche di turbe nell’anima, cosa che già si era presentata in tutta la sua forza nel prequel contribuendo a delineare un quadro più complesso e compiuto dell’antagonista Ruvik. Anche qui, le colpe – reali o immaginarie, poco importa – di Sebastian e degli altri sventurati nello STEM generano mostri strettamente legati alle loro sofferenze e manie. Come Obscura, un essere aracnomorfo con una macchina fotografica al posto della testa, nato dal voyeurismo omicida del folle fotografo Stefano.
Se, infatti, il primo The Evil Within si distingueva per un approccio alla narrazione allucinato, morboso, alle volte volutamente oscuro, questo seguito adotta un modus operandi diverso: il plot è più lineare, se vogliamo più standardizzato secondo i canoni del moderno videogioco, ma anche più intelligibile e meno affidato alla spasmodica ricerca di documenti chiave che facciano luce sulla vicenda. La storia di Sebastian è narrata in maniera senza dubbio maggiormente classica, ma proprio tale cambio di prospettiva ha permesso la nascita di una sceneggiatura di piacevole caratura, a tratti brillante e persino particolarmente emozionante, soprattutto verso il catartico finale (anche grazie ad un ottimo taglio registico, studiato nei minimi dettagli e permesso dall’evoluzione del motore grafico). The Evil Within 2 vuole esplorare le conseguenze del senso di colpa e del rimpianto, le tematiche della redenzione e del ritrovamento del sé, non esitando a far attraversare al proprio protagonista un lungo e tortuoso percorso di espiazione e (ri)affermazione. Gli ostacoli sono rappresentati non solo dai nemici nati dallo STEM, ma – come vuole la tradizione del genere horror – soprattutto dagli altri esseri umani, qui ottimamente caratterizzati nelle loro perversioni. Se c’è un piccolo difetto da imputare al lavoro degli scrittori, esso consisterebbe forse nell’assenza di alcuni volti noti del predecessore, probabilmente tenuti da parte per un auspicabile terzo capitolo.
Lily Castellanos è il motore portante delle azioni di Sebastian: la sua ricerca lungo le strade devastate riecheggia per tematiche e sensazioni quei Silent Hill – in particolare il primo, storico episodio - di cui si sente, ormai, tremendamente la mancanza: non è difficile ravvisare, nelle vie interrotte da crepacci di Union e negli affanni del nostro detective, numerosi riferimenti al capolavoro originale di Konami del 1999, data anche quella che si presenta come la più grande novità del titolo, ovvero la possibilità di esplorare in maniera semilibera Union nel corso di alcuni, specifici capitoli. Prendendo spunto dalle più recenti innovazioni del genere survival horror, il titolo affida al giocatore in determinati punti la facoltà di perlustrare alcune zone della città in lungo e in largo, all’interno di zone ampie e vaste ma sempre ben delimitate, alla ricerca non solo di armi e munizioni utili per la propria causa, ma anche di vere e proprie missioni facoltative, attraverso le quali si farà conoscenza di personaggi di secondo piano e si chiariranno alcuni fatti secondari della trama. Tra l’altro tali zone aprono le porte a soluzioni di bilanciamento che, strizzando l’occhio a The Last of Us e altri titoli simili, evolvono il gameplay generale in nuove, più decise direzioni: soprattutto al livello più alto di difficoltà diventa fondamentale cercare ogni casa, ogni tetto e ogni scantinato alla ricerca di materiali per il crafting e il potenziamento di armi o di Sebastian stesso (ritorna quindi il misterioso gel verde tanto bramato dai giocatori), mentre le munizioni sono contate per gran parte dell’avventura e i nemici tenaci e aggressivi, a volte incredibilmente duri a morire; lo stealth ha ricevuto dei miglioramenti essenziali, che comprendono un funzionale sistema di coperture, ed è ora una possibilità molto più interessante e meglio congegnata, anche perché è financo il gioco stesso ad invitare il giocatore a non affrontare i petto i gruppi di nemici, spesso davvero numerosi, che gli si presentano davanti.
La nuova direzione data dal team di sviluppo si riflette in un titolo che conosce meglio i propri punti di forza, sfruttandoli appieno per un’esperienza sì impiantata rigidamente in un telaio da survival “vecchia scuola”, ma anche intessuta di caratteristiche più moderne, integrando serenamente il tutto senza tutte quelle incertezze e quegli scomponimenti che ogni tanto piagavano il sia pur ottimo primo episodio: Sebastian si muove in modo più fluido e naturale rispetto a prima, e alcuni accorgimenti apportati al sistema di telecamera riescono nel proporre una visuale meno ristretta e invasiva, maggiormente focalizzabile sull’azione. Manca forse, in The Evil Within 2, l’incredibile varietà di ambientazioni, situazioni e nemici che Mikami era riuscito a offrire in passato, e tuttavia il titolo riesce nel proporre un ritmo di gioco assai convincente, elegante e accattivante, alternando sapientemente le aree semi open-world precedentemente descritte con lunghe sessioni claustrofobiche in strutture sotterranee, catacombe e immancabili laboratori, non disdegnando capitoli interamente focalizzati sull’evoluzione dei personaggi e della narrazione e neppure alcune piccole sperimentazioni – purtroppo decisamente troppo brevi. Il culmine viene raggiunto, con tutta probabilità, nel corso di alcune missioni secondarie, quando più forte si fa, da parte dello sviluppatore, la voglia di giocare con soluzioni nuove, che tra l’altro finiscono anche per avere un impatto non solo sulla trama complessiva, ma anche sulla stessa “campagna principale”, se così può essere definita.
Alcune boss fight ottimamente congegnate e l’atmosfera che ha mantenuto in gran parte il tono malato e grottesco del predecessore completano il sontuoso pacchetto, impreziosito da un aspetto tecnico che – stavolta sì – fa buon uso della tecnologia Id Tech 5, tanto che gli sviluppatori hanno rinominato il proprio motore grafico, risultato degli esperimenti tecnici effettuati sul lavoro di Id, STEM Engine, quasi a sottolineare una più compiuta maturità del codice. Intendiamoci, il gioco non presenta texture allo stato dell’arte o un’effettistica particolarmente elaborata, bensì sono sparite le bande nere che tanta insoddisfazione avevano generato, mentre gli FPS sono fissi saldamente a 30; il sistema di illuminazione convince, e la cura per i dettagli scenografici è mastodontica. Poi, come già detto poc’anzi, The Evil Within 2 si distingue per un’accresciuta sagacia registica, sia nelle splendide sequenze d’intermezzo – ulteriormente esaltate da eccellenti animazioni facciali – sia nel titolo in sé, tra cambi di prospettive, dettagli nascosti, giochi di luce e ombra, rovesciamenti di fronte continui. Viene sfruttato ogni “trucco” del mestiere, insomma, per restituire al giocatore un’atmosfera angosciante e oppressiva, e il tutto viene ulteriormente sottolineato da una colonna sonora assai azzeccata, capace di sottolineare determinati momenti con acuta sagacia, con sonorità che faranno scorrere un brivido di emozione (non necessariamente paura) lungo la schiena del giocatore.
Buona la seconda: al netto di una filosofia espressamente old-school e di tante buone intuizioni, il primo The Evil Within non riusciva sempre ad offrire al giocatore un’esperienza impeccabile. Non così il seguito, che mostra con tutto il suo gusto per il macabro, con la sua maturità espressiva e narrativa e con il suo gameplay raffinato fino allo splendore come Tango Gamerworks abbia veramente voluto superare sé stessa. The Evil Within 2, ad onor del vero, non fa paura più di tanto - eccezion fatta per certi momenti specifici - soprattutto per un veterano del genere: le sue radici si allontanano, complice l’assenza di Mikami, dal survival horror d’antan per spingersi di più verso il thriller psicologico fatto più di tensione che di salti sulla sedia, verso una propria identità ben definita e verso una maturazione del franchise sempre più completa. Quello che ci troviamo davanti non è una rivoluzione nel genere, né un esperimento particolarmente originale, bensì un titolo solido come una roccia, impegnativo al punto giusto, stimolante nella progressione, condito da una scrittura e una regia di alto livello, da scenografie inquietanti eppure emozionanti, da una colonna sonora sensazionale. Tra tradizione e rinnovamento, proseguendo lungo una linea diversa dai “rivali” Resident Evil VII e Outlast 2 e delineando una sua più consapevole e sicura eredità.
Pro
- Una compiuta espressione del survival horror classico, non disdegnando alcune evoluzioni
- Struttura di gioco efficace, tra spazi ampi e lugubri corridoi
- Sceneggiatura e scrittura ad alti livelli
- Impegnativo e mai banale
Contro
- Tecnicamente non allo stato dell'arte
- Si è persa la direzione allucinata e ispirata di Mikami
- Non fa veramente paura, se non in brevissimi momenti
- Non risolve alcuni punti rimasti in sospeso dal primo episodio
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