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“Ranking of kings” gioca molto sui contrasti, ma ci marcia un po’ troppo.

L’idea di mettere un bambino sordomuto, ingenuo e paffutello, che si presenta con un sorriso stampato sul volto, in situazioni difficili e cruente, sicuramente fa presa sullo spettatore, ma alla lunga diviene irritante (e poi non è che il soggetto sia così tanto originale). Buona è l’alchimia che si forma tra il protagonista Bojji e la creatura del clan delle ombre Kage, i quali diventano quasi simbiotici; interessante la storia “prequel”, che viene raccontata grazie a una serie di flashback; discreto l’epilogo, ma tutto lo sviluppo della narrazione, che conduce a quel finale, è praticamente un disastro.
Devo dire che la storia parte bene , perché ha un’ambientazione simile alla “Il trono di spade” (dal quale scopiazza un po’ di personaggi e situazioni) e i primi episodi mettono in scena una serie trame e intrighi, che fanno sperare di trovarsi di fronte a un’opera di ampio respiro (il cui manga è ancora in corso), con uno sviluppo complesso, ma avvincente, con un intreccio ricco di misteri da svelare e colpi di scena da vivere e in grado di coprire con maestria interi archi narrativi, e instilla quindi nello spettatore l’aspettativa di trovarsi di fronte a una nuova epopea fantasy. Purtroppo, dopo pochi episodi, queste speranze si dimostrano solo delle mere illusioni, che inevitabilmente conducono a una grande delusione.

Le cospirazioni e le sotto-trame si rivelano effimere, poiché nascono e si esauriscono nell’arco di un paio di puntate, e sembrano avere il solo scopo di allungare la storia. Gli intrighi, poi, non avvengono in luoghi oscuri, lontano da occhi indiscreti o tramite missive dove il portatore rischia la vita, ma alla luce del sole, sotto gli occhi di tutti, utilizzando una tecnica tanto arcaica quanto arcana, e cioè... parlandosi nelle orecchie.

Diciamocelo chiaramente, le opere fantasy e sci-fi consentono a un autore di avere numerose licenze rispetto alle leggi della natura e della logica, tuttavia l’abilità di chi le scrive sta nel saperle gestire e soprattutto renderle plausibili, in quello che è l’universo che egli stesso ha creato, perché queste ambientazioni non possono diventare la scusa per buttarci dentro la prima idea che può passarti per la testa, presa magari dai cartoni animati visti durante la propria infanzia o da quelli più famosi del momento. In “Ranking of Kings” ci sono delle cose che sono spiegate bene (e sono quelle che ti illudono), ma altre cose che sono assolutamente prive di senso.

Il motivo per cui il protagonista sia così piccolo e debole rispetto ai genitori, per quanto apparentemente assurdo, è invece ben motivato e “reso” plausibile dalla narrazione, ma di contro l’abilità di Bonji di schivare i colpi con la stessa velocità di Goku di “Dragon Ball” o Pegasus de “I Cavalieri dello Zodiaco” (scegliete voi chi più vi aggrada) viene giustificata dal fatto che il bambino, in quanto sordo, sia diventato veloce per riuscire a leggere la labbra (elementare, Watson!).

I comportamenti di alcuni personaggi secondari sono totalmente assurdi che si spiegano come una serie di goffi tentativi, da parte dell’autore, di creare dei colpi di scena, che dovrebbero far sobbalzare lo spettatore dalla sorpresa, ma che invece lo lasciano semplicemente interdetto. C’è sicuramente un chiaro tentativo da parte dello sceneggiatore di evidenziare il conflitto tra “necessità”, “doveri”, “sentimenti” ed “etica” che alberga in molti dei coprotagonisti (non in Bojji, che è sempre coerente con sé stesso), ma il modo in cui ciò avviene è totalmente confusionario e arruffato, perché è un continuo “agire”, “pentirsi di aver agito”, “pentirsi di essersi pentiti di aver agito”. Si assiste così ad esecuzioni che vengono commissionate e poi sospese, senza un intervento esterno e senza una vera motivazione; alleanze che si fanno e disfano nell’arco di qualche minuto; traditori che tradiscono, ma poi aiutano i traditi, pur rimanendo alleati con i cospiratori; personaggi che vengono feriti durante la battaglia, e, appena recuperano, invece di riprendere lo scontro, vanno a fare un po’ di casino nel villaggio; eroi esanimi, a cui manca solo il colpo di grazia, che vengono graziati, perché l’avversario scopre di aver altro da fare...

In questo anime si rovesciano con disinvoltura fiumi e fiumi di lacrime e sangue, poiché vi si alternano scene crude che coinvolgono anche il protagonista ad altre toccanti. Tuttavia, più si va avanti con la narrazione e più aumenta la percezione che tali scene siano forzate, e in alcune di esse si intravede anche il tentativo di farle diventare “iconiche” (e spendibili anche a livello di marketing), in una sorta di fanservice “emotivo”. È anche difficile capire a quale target di pubblico sia indirizzata quest’opera, visto che la struttura da fiaba, con tutte le incongruenze annesse e connesse, può renderla sì adatta alla fascia dei più giovani, ma anche lasciare perplessi i più grandi. Di contro, tutta quella truculenza non la rende di certo ideale per i più piccoli.

La storia è divisa in due parti, piuttosto diverse tra di esse.

La prima è incentrata tutta sulla ben assortita coppia Bojji/Kage: entrambi emarginati, uno a causa dei suoi problemi fisici, l’altro perché appartenente a una razza reietta, i due svilupperanno inizialmente un insano rapporto “preda/predatore”, che renderà ancora più difficile la vita del principe, ma presto Kage diverrà “guardia del corpo”, “voce”, “fido scudiero” e quindi “compagno di avventure” del piccolo reale.
Una delle più grandi pecche di questa prima parte è che, in ogni puntata, non manca una scena in cui il protagonista non pianga. C’è addirittura un motivetto che parte un attimo prima che i suoi occhi comincino a diventare lucidi. Non so quale sia il suo nome di questo jingle nella OST, però potrebbe tranquillamente chiamarsi “Le lacrime del principino”. Il problema di queste scene è che, dopo qualche episodio, cominciano a sembrare cosi artificiose, da portare alla mente un cabarettista che, a fine serata, inizia a chiamare l’applauso a un pubblico ormai stanco di sentire la stessa battuta.

Nella seconda parte la coppia Bojji/Kage viene un po’ accantonata, a tutto vantaggio della storia “prequel” (che è la migliore), e acquistano più visibilità altri personaggi secondari. In questo passaggio di testimone, non manca comunque il passaggio del “lacrimone”.
Visto che il più grande difetto della serie risiede proprio nei collegamenti, tra un arco narrativo e l’altro, e tra il principio e la fine, l’essenzialità dei flashback, di cui è ricca la seconda parte, rende quest’ultima molto più comprensibile e scorrevole, e in qualche modo salva il finale.

Dato che Bojji parla solo per mezzo di Kage, e visto che ci è precluso il suo monologo interiore, si forma un curioso paradosso per cui, invece di vedere la realtà dal punto di vista del protagonista, cosa che è la norma in ogni racconto, ci troviamo a vederla da un punto di vista invertito (sappiamo più come il mondo vede lui, che non viceversa), tuttavia c’è un momento dove, finalmente, la prospettiva si ribalta e, per pochi fotogrammi, osserviamo come il bambino “sente” tutto ciò che lo circonda.
Questa è una bella trovata, ma poteva essere usata molto meglio e in un contesto meno marginale.

Come già accennato in precedenza, tantissimi e un po’ spropositati sono i rifermenti a serie e animazioni fantasy più o meno recenti, dei quali sono degni di nota: uno scontro con la tecnica del “movimento tridimensionale” usata contro un gigante (va beh, dai, fatta dalla studio WIT ci può stare) e la versione rossa del drago Shenron.

Il comparto sonoro è discreto, di cui la seconda opening ottima. La componente grafica è peculiare, molto probabilmente disegnata per ricordare le illustrazioni dei libri per l’infanzia, e presenta fondali essenziali e piatti (che quasi cancellano la profondità), assieme ai quali gli stessi personaggi tendono a fondersi. Anche il design di Kage gioca su questo “contrasto/fusione” (dovrebbe chiamarsi sincretismo) bi-tri dimensionale, magari c’è un motivo particolare, magari no.

Per concludere, “Ranking of Kings” è un anime fatto di ombre (molte) e luci (alcune anche buone), e, al di là di tutta una serie di difetti narrativi e sovra-drammatizzazioni, riesce a far nascere una certa empatia verso i due protagonisti; non manca inoltre qualche momento umoristico (alcuni dei quali totalmente involontari), che rende più piacevole la visione. Alla fine il mio voto supera la sufficienza.