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Se il buon narratore è colui che cattura la tua attenzione con un incipit intrigante; che ti prende per mano e ti fa entrare nel suo mondo, catapultandoti in una realtà, magari fantastica, ma comunque realistica, ricca di discorsi fluidi e chiari, con storie tanto articolate quanto comprensibili; che ti fa vivere un’avventura avvincente ed entusiasmante; che riesce a creare una forte empatia verso i suoi personaggi, a farteli amare od odiare e che ti fa vivere le loro gioie e i loro dolori, come fossero i tuoi; che ti inchioda davanti allo schermo e che ti fa venire voglia di andare avanti di minuto in minuto, di episodio in episodio, fino a lasciarti un senso di vuoto, allo scorrere dei titoli di coda; allora Tomihiko Morimi, scrittore del romanzo, e Masaaki Yuasa, che ne ha curato la regia, sono dei pessimi storyteller, anzi, potremmo tranquillamente definirli dei buttafuori della narrazione.

Non avendo letto la novel originale, che purtroppo è inedita nel nostro Paese, non ho idea di quanto in questo anime ci sia del primo e quanto del secondo. Quello che posso dire è che “The Tatami Galaxy” non fa nessuno sforzo per sedurre il potenziale spettatore, dato che già la locandina presenta dei disegni tanto schematici, quanto confusionari, da far sentire il desiderio, a chi vi si imbatte, di scartarla senza tante remore, e nel caso qualcuno decidesse di darle comunque un’opportunità, tutti quei cattivi presagi, che potevano essere balenati nella sua mente, sarebbero, sul momento, confermati.

I personaggi sono orripilanti, anche quelli che non dovrebbero esserlo, i loro movimenti sono goffi e sgraziati; i fondali sembrano disegnati da un bambino delle elementari; ogni tanto vengono buttate dentro fotografie o piccole riprese dal vivo, con un effetto piuttosto disturbante; i discorsi consistono, nella maggior parte dei casi, in lunghissimi monologhi perdifiato, che hanno lo stesso ritmo di un rap, per di più, non essendoci la traduzione in italiano, si è costretti ad usare in continuazione il tasto pausa, in modo da poter leggere bene i sottotitoli (bianchi su sfondo quasi sempre bianco). In sostanza, il povero spettatore che ha la fortuna (o sfortuna) di incappare in questa creazione, si ritrova accolto da un fuoco di sbarramento tale, da avere la sensazione di stare davanti a un cartello con la scritta “Stammi lontano!”. Cosa che anche il sottoscritto avrebbe fatto volentieri, se non avesse letto tutte le ottime recensioni su di esso, ed effettivamente, seppur lo stile espositivo rimanga per l’intera serie tutt’altro che fluido, con il procedere della storia si incomincia a disvelare una trama molto articolata, ma convergente, il cui messaggio principale, anche se non originale, risulterà decisamente chiaro.
La struttura narrativa non è tanto innovativa, visto che si basa sul loop temporale. Ogni episodio copre l’arco di due anni, e inizia con il protagonista (dal nome ignoto, ma che parla di sé con il pronome “watashi”) che, appena entrato all’università e con la convinzione di star per iniziare “la rosea vita del campus”, si iscrive a un club dopo-studio, con l’obbiettivo di socializzare e conoscere finalmente una bella ragazza dai capelli corvini. Ogni puntata si chiude con un reset che porta di nuovo il protagonista ai suoi primi giorni all’università. Di volta in volta, però, il ragazzo sceglierà un diverso circolo, ma il finale (ahilui), per molti episodi, sarà sempre lo stesso. Degna di nota è la figura di Ozu, compagno di studi di Watashi, “amico/nemico” del protagonista, dall’aspetto demoniaco e che si rivelerà determinante per l’evoluzione della sua “vittima” preferita.

Il secondo episodio (quello del circolo del cinema) appare un po’ il manifesto “autoriale” di “The Tatami Galaxy”, visto che viene esaltato il dualismo tra Watashi e il presidente del circolo, dove il primo cerca di creare pellicole molto personali e alternative, ma con scarsissimo riscontro, e l’altro invece punta a girare epopee storiche, ottenendo invece grande successo di pubblico; e mentre il primo procede incerto e con fatica lungo il suo cammino, il secondo dimostra di avere idee molto chiare su che genere di opere vuole fare: “Qual è la cosa più importante per gli spettatori? Poter condividere le emozioni con gli altri e semplice etichetta di base”.

Anche se è citato il buddhismo, da quello che so, non può avere come base filosofica questa religione, visto che gli obbiettivi e i risultati conseguiti dal nostro eroe sono prettamente mondani, e il buddhismo, in questo, sta agli antipodi (Siddhārtha abbandonò moglie e figlio per intraprendere la vita monastica), inoltre il loop che avviene in ogni episodio ha poco a che fare con la reincarnazione, perché, in tale religione, a reincarnarsi è lo spirito (che passa di corpo in corpo) e ogni esistenza ricomincia dalla nascita (no a vent’anni), inoltre ogni nascita è governata dalle leggi del karma, cosicché, nella vita successiva, si scontano gli errori e si raccolgono i meriti delle esistenze precedenti. Qui, invece, sembra più un continuo addestramento, al quale è sottoposto Watashi, che procede verso un’unica direzione, e dall’idea che mi sono fatto questo anime abbraccia molto lo shintoismo, visto che gli scopi che si prefigge sono molto terreni (ad essere piuttosto compatibile con il buddhismo è invece il genere isekai).

Quando in un’unica opera si citano il Buddha, “Re Lear” di Shakespeare, registi francesi, “20.000 leghe sotto i mari” e opere derivanti dal folclore giapponese, è difficile, o forse impossibile, comprendere appieno tutti i vari significati e sfumature che l’autore cerca di mettere in scena. Io, personalmente, definirei “The Tatami Galaxy” un “battle seinen” dove la battaglia, di volta in volta, non è contro avversari esterni, ma contro sé stessi, e anche se ciò è praticamente implicito nella struttura narrativa di tutti i seinen, in tale anime questo “duello” risulta davvero evidente ed esasperante.

Il mio giudizio finale è sicuramente positivo, perché oltretutto ammiro il coraggio di imbastire un’opera complessa e libera (“Le esigenze di mercato non devono assolutamente inquinare i film” - cit. Ozu), con uno stile che mi ha ricordato “Clerks” di Kevin Smith (uno dei più grandi mattatori del cinema indipendente), tuttavia, come scrivevo da principio, il loop temporale è un qualcosa di già visto, e l’autore non ne fa nemmeno mistero: tra le immagini della novel ce n’è una dove è raffigurata una grande tartaruga, sul cui dorso c’è l’albergo del protagonista, e questo è un evidente riferimento a un lungometraggio con Lamù (anche se a me il modo in cui si sviluppa la storia ha ricordato molto il film con Bill Murray “Ricomincio da capo”); sommando poi il fatto che “ l’occasione” che Watashi aveva davanti agli occhi è risultata piuttosto telefonata, che il percorso che compie il protagonista è tipico dei seinen e, vista la fatica che mi è costato visionarlo, mi aspettavo un qualcosa in più verso il finale, tale da farmi gridare al capolavoro (il ribaltamento dei ruoli non mi è bastato), cosicché il mio voto è alto, ma non altissimo.

Nel caso decidiate di voler vedere un qualcosa di alternativo, ricco di sfaccettature e ben congegnato, ne consiglio sicuramente la visione, ma, se siete stanchi, assonnati o con un mal di testa, meglio che rimandiate.