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Piattaforma: PlayStation 4 --- Voto 9,5
Al vostro risveglio, vi ritrovate ricoperti di misteriosi tatuaggi, in un luogo sconosciuto e in rovina. Non sapete come siete finiti lì, né per quale motivo, ma al vostro fianco giace un’enorme creatura piumata, trafitta da alcune frecce e legata con una catena. I racconti della vostra gente descrivono questi esemplari alati come creature mangia-uomini, eppure voi decidete di aiutarla, non senza qualche timore, prima estraendogli le frecce e poi liberandola dalle catene che la tengono imprigionata. La bestia si scopre inoltre essere ghiotta di alcuni barili luminosi, grazie ai quali riacquista le sue forze. Compiuta la vostra buona azione della settimana, cercate un modo per uscire dalla grotta, ma l’unica uscita sembra irraggiungibile, è troppo alta per voi. Ecco però che la bestia inizia a seguirvi, a fissarvi con ingenua curiosità come un gattino smarrito alto però svariati metri. Sembra innocuo e vi ha preso in simpatia, e se provaste a salire su di lui? Forse l’unico modo per fuggire da questo posto, è una inaspettata cooperazione.

Fumito Ueda ha sempre seguito la sua filosofia della “programmazione per sottrazione”, epurando tutti quegli elementi che reputa superflui alla sua visione e a ciò che vuole raccontare. In "The Last Guardian" non avremo una barra della vita, non ci sono collezionabili, mappe né punteggi; di armi e potenziamenti non ne parliamo, e vi è un solo tipo di nemico che si comporta in un unico modo. Un game design votato all'essenzialità, ha di conseguenza l’effetto di amplificarne i dettagli; nelle opere di Ueda siamo così abituati ad essere circondati dal nulla che anche una piuma che svolazza o un piccolo sciame di farfalle finisce inevitabilmente per catturare la nostra attenzione. In tal senso, lo stile primitivista ed evocativo della sempre maestosa messa in scena, diventa il tramite esteriore del nostro rapporto con un altro mondo, come una Nostalgia dell’Infinito (De Chirico, quadro che ispira la copertina di "ICO"). L’essersi circondato di figure inesperte una volta entrato in Sony Computer Entertainment dopo l’esperienza in WARP ("D", "Enemy Zero"), ha permesso a Ueda di compiere una destrutturazione dei luoghi comuni imposti da un mercato in costante crescita industriale, anticipando di fatto un’intera generazione di giochi indie.

Trico, la bestia che ha sconfitto l’hardware di PS3, è essenza e struttura di "The Last Guardian": è una piattaforma, è un veicolo, è una guardia del corpo, ma al contempo nulla di tutto questo. Trico è innanzitutto il nostro compagno di viaggio e di sventure, e come tale è imperfetto, alle volte goffo, altre impaurito, teme delle cose (alcuni simboli) e altre gli fanno perdere la ragione. Starà a voi creare con lui un rapporto di fiducia, calmarlo quando ce n’è bisogno, provare a dirgli dove andare, e cosa fare. Già, ma come? E qui si torna ad "ICO", dove i due protagonisti non comprendono le rispettive lingue e si ritrovano a comunicare tramite il linguaggio del corpo, creando una splendida simbiosi tra game design e animazione. Vedere Yorda che si spaventava quando ICO saltava da un dirupo, era una cosa bellissima non ravvisabile altrove, questa maniacalità del dettaglio raggiunge nuove sfide in "The Last Guardian", sposando il contesto animale del nostro pennuto e mastodontico compagno. Con Trico dovrete superare ostacoli e risolvere puzzle ambientali, la sua stazza vi sarà utile per determinate situazioni e un ostacolo per altre, e dare un comando alla bestia non sarà certo il più immediato dei procedimenti, con diversi tentativi che andranno a vuoto.


Ma la perseveranza è la seconda parola d’ordine in "The Last Guardian", dopo la fiducia; vi capiterà dopo aver setacciato l’area di scoprire che quella piattaforma laggiù è l’unica raggiungibile con un bel salto di Trico, e che quel ponte levatoio si può buttare giù con la sua forza, e allora riproverete scoprendo con stupore misto a frustrazione che la vostra prima idea era quella giusta, ma che il nostro amico semplicemente non aveva capito, che ti guarda come a dire “embè, stavo guardando quegli uccelli là sopra”, e lo si perdona come si perdona il nostro gatto dopo aver rovesciato una ceneriera. Come dice il buon SWERY it is nonsense if you call Toriko “AI.”, you need to love Toriko, that’s all. Trico non è il vostro robot da manovrare a comando, Trico è l’animale più animale mai visto in un videogioco, a volte rivolge il suo sguardo verso la via da seguire, altre volte lo vedremo fissare il cielo o grattarsi l’orecchio tempestandoci di piume, ma è anche l’unico in grado di sconfiggere i nemici del gioco.

Contro di loro, delle minacciose statue di pietra, siamo infatti quasi del tutto inermi, possiamo al limite tirargli dei vasi per rallentare la loro avanzata oppure coglierli di sorpresa da dietro con una spinta, nulla più. Fumito Ueda ancora una volta capovolge i ruoli: in "ICO" eravamo i protettori di una eterea e fragile ragazza, in "Shadow of the Colossus" è invece il protagonista Wander a rendersi carnefice di sedici esseri viventi per riportare in vita la sua amata, al costo di rinunciare alla sua umanità, impregnandosi di sangue nero che sgorgava ad ogni colosso abbattuto. "The Last Guardian" infine ci catapulta nei panni di Yorda, i nemici cercano solo noi proprio come in "ICO" puntavano alla protetta portandola verso fessure d’ombra sul terreno, mentre qui avremo al loro posto dei portali di luce alle pareti; solo Trico può sconfiggere le statue di pietre e noi non potremo fare altro che dimenarci smanettando sul controller per liberarci dalla loro presa.
La bestia però non sarà sempre al nostro fianco, nelle fasi in solitario "The Last Guardian" mostra tutto il suo classicismo, tra leve da tirare, blocchi da muovere, "Prince of Persia", "Tomb Raider", con la differenza che lo scopo è sempre quello di ricongiungerci al nostro compagno, giacché senza di lui non si va da nessuna parte. Che sia per motivi ambientali o narrativi, quello che vi legherà a Trico sarà un legame unico e che vi accompagnerà fino agli ultimi e commoventi momenti di questa magica avventura.

ll tempo impiegato per il completamento di un’opera non dovrebbe essere criterio di giudizio, mai. Un libro non viene giudicato in base a quanto tempo ha impegnato lo scrittore, un quadro non si valuta con la velocità con cui è stato dipinto.
Nel difficile mercato dei videogiochi però, correlato di determinate finestre di uscita, campagne di marketing, esclusive sbandierate, il tempo è tra i peggiori dei nemici; esso accresce le aspettative, l’attesa diventa ossessione, la curiosità si tramuta in nervosismo, dopo l’ennesima fiera saltata, ad ogni trailer non mostrato, ad una nuova data slittata. Il risultato della lunga gestazione di questa Salerno-Reggio Calabria dei videogiochi che risponde al nome di "The Last Guardian", oltre ad una quantità infinita di meme, è un enorme macigno il cui peso, che cresceva di pari passo con gli anni, rischiava di schiacciarlo in data 7 dicembre 2016, giorno designato per l’atteso rilascio. Alcuni hanno deciso di attendere accidiosamente che questo macigno gli cadesse addosso, facendosi vincere dal tecnicismo ad uso e consumo del videogiocatore automa adagiato dinnanzi al suo monitor 4K, grotteschi esemplari metà uomini metà scheda grafica, gli stessi che hanno generato un aborto come PS4 Pro; altri hanno invece preferito accoglierne la sua travagliata, ma per questo umana, eredità di una visione incrollabile.

È fin troppo facile recensire l’ultimo sequel di una serie famosa, aggiornare quelle (poche) novità rispetto al precedente, elogiarne i miglioramenti rispetto all'anno prima, elencarne gli eventuali difetti, misurarne l'ampiezza della mappa esplorabile come un navigatore satellitare, calcolarne la longevità come un cronometrista di Formula 1. Ma in quei rari casi in cui ti ritrovi un prodotto come "The Last Guardian", frutto della visione di un singolo lungamente rincorsa, scolpita passo per passo con la meticolosità di un artigiano, come si fa ad indossare i panni del critico, a spulciarne i (sorvolabili) difetti tecnici? Per poi magari tesserne le lodi anni dopo, cercando di nascondere la testa sotto una bella dose di ipocrisia. Francamente, sembra anche irrispettoso, sa di presa in giro nei confronti di chi legge.
I videogiochi non sono gratuiti, alla loro uscita hanno un prezzo non indifferente, giusto quindi informare il lettore che "The Last Guardian" esce da una capsula del tempo scongelata dopo dieci anni riguardo ai controlli, inutile aspettarsi l’agilità dell’ultima ringiovanita Croft e i salti guidati dei più recenti Assassini. Giusto citare gli evidenti cali di frame rate di cui il gioco soffre (si scende fino ai 20 fps in ambiente PS4 standard, meglio su Pro), giusto evidenziare una telecamera non proprio tra le più amichevoli (anche se la recentissima patch 1.03 corregge qualcosa a riguardo).
Ma alla fine è davvero quello che cerchiamo da un videogioco di questo tipo? "ICO" saltò una generazione (era previsto sulla prima PlayStation) esattamente come "The Last Guardian", "Shadow of the Colossus" su PS2 girava a 18fps durante gli scontri con gli immensi colossi, ciò non ha impedito loro di emozionarci, di lasciarci un vuoto interiore una volta conclusi, di diventare immortali, e checché se ne dica "The Last Guardian" seguirà i suoi illustri predecessori, lassù nell'Olimpo dei grandi videogiochi.

Non c’è nulla, in questa generazione di proclami, come Trico, con il suo piumaggio che si muove al vento e ad ogni movimento, le sue orecchie che si alzano al nostro richiamo, la sua coda che ci salva più volte le chiappe. Non c'è un finale di questo livello, bellissimo e ancora una volta in chiaroscuro, aperto a molteplici interpretazioni. Non c’è nulla come "The Last Guardian", e tanto dovrebbe bastare per farsi questo regalo.

Con visionaria ostinazione, "The Last Guardian" fa in modo che l’ultimo Ueda manifesti la sua unicità trainando a sé l’adventure di origine amighista, "Another World", luoghi di immaginazione e di lontananza da cui non si può restare insensibili, eguagliando più volte i requisiti di eccellenza di "ICO", e non è che fosse cosa semplice. Si possa noi, in dovere di essere fautori di evasione, divenire adulanti di questa mistura di estetiche classiche e progressione tecnica, che ricerca il dettaglio ma anche un suo punto d’intermittenza con il level design e il fattore emotivo. Un videogioco prezioso quanto un antico scritto, e pertanto da apprestare ad elevare a classico.