Wonder Boy
“Wonder Boy” è il primo videogioco di un franchise che conta diversi capitoli, pubblicati perlopiù tra gli anni Ottanta e Novanta, ma che negli ultimi anni è stato più volte reinterpretato e riproposto sotto varie formule, come la “Wonder Boy Collection” con la quale ho avuto modo di recuperarlo.
Curiosamente, prima di questo ebbi modo di giocare a “Adventure Island”, il quale ne rappresenta un adattamento per NES con qualche differenza e molti punti in comune. Motivo per cui non sono rimasto eccessivamente colpito dal gameplay e dalla struttura di gioco di “Wonder Boy”, ma dalla maggiore qualità tecnica che soprattutto la versione arcade sa offrire. Non solo la grafica è più curata e il sonoro è più gradevole, ma ciò che ho apprezzato di più sono i controlli, estremamente reattivi e precisi per l’epoca, essenziali per apprezzare un Platform impegnativo come questo.
In generale il gioco è piuttosto divertente, il gameplay è frenetico e stimolante e la musica da il ritmo all’avanzamento del giocatore. Purtroppo, “Wonder Boy” ha un tallone d’Achille a mio avviso abbastanza palese, ovvero la ripetitività estrema delle aree. I livelli si ripetono offrendo sempre gli stessi scenari e gli stessi ambienti, seppur con una difficoltà crescente. Questo è l’elemento che maggiormente lo penalizza se paragonato al Platform più iconico dell’epoca, quel “Super Mario Bros” che un anno prima scrisse la storia del videogioco e la storia del genere, proponendo un elevato numero di mondi e livelli ben distinguibili e caratterizzati, con nemici unici e una struttura in continua evoluzione. Rispetto al Platform di Nintendo, in “Wonder Boy” non si procede tanto per il piacere della scoperta e per vedere i livelli successivi, quanto per il costante desiderio di mettersi alla prova.
In definitiva, “Wonder Boy” è un gioco che va recuperato da tutti coloro che vogliono farsi un po’ di cultura sul mondo videoludico dell’epoca, a maggior ragione se appassionati di Platform, ma soprattutto se amanti di sfide impegnative e soddisfacenti.
Curiosamente, prima di questo ebbi modo di giocare a “Adventure Island”, il quale ne rappresenta un adattamento per NES con qualche differenza e molti punti in comune. Motivo per cui non sono rimasto eccessivamente colpito dal gameplay e dalla struttura di gioco di “Wonder Boy”, ma dalla maggiore qualità tecnica che soprattutto la versione arcade sa offrire. Non solo la grafica è più curata e il sonoro è più gradevole, ma ciò che ho apprezzato di più sono i controlli, estremamente reattivi e precisi per l’epoca, essenziali per apprezzare un Platform impegnativo come questo.
In generale il gioco è piuttosto divertente, il gameplay è frenetico e stimolante e la musica da il ritmo all’avanzamento del giocatore. Purtroppo, “Wonder Boy” ha un tallone d’Achille a mio avviso abbastanza palese, ovvero la ripetitività estrema delle aree. I livelli si ripetono offrendo sempre gli stessi scenari e gli stessi ambienti, seppur con una difficoltà crescente. Questo è l’elemento che maggiormente lo penalizza se paragonato al Platform più iconico dell’epoca, quel “Super Mario Bros” che un anno prima scrisse la storia del videogioco e la storia del genere, proponendo un elevato numero di mondi e livelli ben distinguibili e caratterizzati, con nemici unici e una struttura in continua evoluzione. Rispetto al Platform di Nintendo, in “Wonder Boy” non si procede tanto per il piacere della scoperta e per vedere i livelli successivi, quanto per il costante desiderio di mettersi alla prova.
In definitiva, “Wonder Boy” è un gioco che va recuperato da tutti coloro che vogliono farsi un po’ di cultura sul mondo videoludico dell’epoca, a maggior ragione se appassionati di Platform, ma soprattutto se amanti di sfide impegnative e soddisfacenti.
Dopo i tanti travagli societari (che proseguono a tutt'oggi) e i conseguenti cambi di proprietà, da Irving Bromberg nei ruggenti anni '30 (sì, la Service Games ha origini americane!), passando per David Rosen, fino all'era della egida di Gulf più Western (del gruppo Paramount) che si conclude nel peggiore dei modi, ossia con la forzata chiusura causata dalla notoria "crisi dei videogame" negli USA, la ricostituita Sega Enterprises necessitava di un personaggio simbolo per rilanciare il suo cubitale logo blu in quel di Tokyo e dintorni. Namco e Nintendo stavano già raccogliendo successi a iosa rispettivamente con "Pac Man" e "Donkey Kong", ma la compagnia di Isao Okawa in madrepatria arrancava, eccome se arrancava: nonostante il lancio del primo lasergame della storia, imponenti cabinati di simulazioni motociclistiche e un fottio di brevetti tecnologici che le altre software house neppure si sognavano, non aveva ancora un portabandiera degno di nota (Alex Kidd non se lo filava nessuno...). Ma ecco che a 1986 inoltrato, a sorpresa, e in congiunzione con l'affiatato team della Escape, appare nelle sale arcade il ragazzino preistorico più kawaii mai incontrato prima, "WonderBoy" (forse per sottolineare la bravura dei programmatori neo-diplomati che lavoravano nel quartier generale di Haneda). Il gioco riscosse subito le simpatie e i consensi dei giocatori nipponici; rispetto a "Super Mario Bros" (pietra di paragone) era blandamente tutto più lineare e ripetitivo, senza passaggi warp o bonus nascosti chissà dove, ma stavolta sembrava di vedere un cartone animato vero e proprio muoversi dentro al monitor. La grafica era una delle più definite e colorate viste fino a quel momento: gli sprite avevano una vasta gamma di espressioni fumettose e non mancavano anacronismi come lo skateboard e il casco, i nemici risultavano altrettanto variopinti con boss di dimensioni ragguardevoli. I comandi di gioco in pratica erano settati (guarda caso) come quelli del coin-op di Miyamoto, né più né meno: corri, salta e lancia asce primitive al posto di sfere di fuoco, ma senza il temuto effetto scivolata che aveva fatto dannare i "joystickari" di mezzo mondo. La sua popolarità si spanse ben presto a macchia d'olio anche oltreoceano, grazie sopratutto alle fedeli conversioni per microcomputer che Nintendo aveva negato per il suo storico platform game (solo pochi fortunati avevano un NES in casa, visto l'elevato costo delle cartucce). Praticamente tutti, quindi, almeno una volta, o sulle macchine di casa Commodore o sullo Spectrum, piuttosto che con il meno diffuso Amstrad (ma la versione migliore è la Master System), avevano provato a salvare la pasciuta e carinissima fidanzata del ragazzo meraviglia. Quando arrivò il momento di rimpiazzarlo e affidare a Yuji Naka lo sviluppo di "Sonic", la dirigenza Sega non s'imbatté nello stesso errore del passato: le conversioni per Amiga e Atari ST, di cui giravano le prime immagini, vennero bruscamente cancellate; il messaggio era chiaro: "Se volete giocare al nostro titolo di punta, dovete correre ad acquistare un Megadrive!".