Uno dei vantaggi del medium videoludico, su quello cinematografico, è l’imperitura dei suoi iconici personaggi, il loro non essere soggetti al volto di un attore e di conseguenza all’inevitabile passare del tempo, risparmiandoci robe indegne della fattispecie Teschi di Cristallo, Terminator “i tessuti dei cyborg invecchiano” Genisys, The Expendables vari. Che bello, la gioventù eterna, ecco quindi una Lara Croft che di colpo diventa una ventenne urlatrice, può capitare al massimo che venga a mancare un doppiatore, ma ci si passa su. Può capitare di decidere di cambiarlo, “l’attore”, come nel caso di Dante di Devil May Cry, ma per scelta, più che per reale necessità, così come per scelta narrativa si decide di far invecchiare un personaggio (Solid Snake) ma alla fine è il pubblico a decidere, che in questo mondo assume un po’ il ruolo di Mietitore, decretando in base al successo la morte o meno di un personaggio, il più delle volte.
 

Un’icona nasce per uno scopo e un ruolo soltanto, mantenendolo (lasciando perdere Super Mario e i suoi mille excursus sportivi, medici o che), e Nathan Drake apparentemente fa parte del club: in Uncharted Drake’s Fortune (2007) ne facciamo la conoscenza, è un cacciatore di tesori in cerca di tesori, così nel sequel Among Thieves (2009), così nel terzo capitolo Drake’s Deception (2011), cambiano le situazioni, cambiano le location, ma non cambia la sostanza. Questo perché Uncharted è una serie d’avventura e lo scopo è cercare un tesoro, sembra una cosa banale ma un attimo: e se Naughty Dog provasse ad andare oltre? Un cacciatore di tesori quando smette di cacciare tesori? La rinuncia, a quell’attraente immobilismo a cui si faceva cenno all’inizio, in favore di una maturità per una serie che per sua natura potrebbe non averne bisogno, con tutti i rischi che questo comporta.

Uncharted 4: A Thief’s End non è quindi solo l’Uncharted di nuova generazione, è uno step successivo, l’ennesimo della casa californiana, che non paga del trionfo di The Last of Us (2013) insegue ulteriori vie di narrazione alla ricerca di un modo per stupire il fruitore dopo un non memorabile terzo capitolo, reo di aver offerto un’esperienza troppo fuggente per lasciare il segno.
Uncharted per il suo capitolo conclusivo ha quindi voluto fare le cose in grande, ampliando la componente narrativa e provando a dare un maggiore spessore all’intera vicenda. Un paragone è Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots, giocandolo si ha quella medesima sensazione  di star vivendo l’ultima avventura, come ci fosse un countdown invisibile tanto lento quanto inesorabile ad accompagnarci verso il finale, che in cuor nostro speriamo non arrivi mai. A Thief’s End riesce però laddove Hideo Kojima in parte fallì: è un videogioco semplice ma con gli attributi.
 
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Eravamo rimasti alla Nathan Drake Collection, un piacevole ripasso per i fan, una collezione importante per tutti coloro che non ebbero modo di vivere le avventure di Nate. Ci eravamo lasciati alla città sepolta nel deserto di Uncharted 3, Drake e Sally, al solito quasi a mani vuote, che si allontanano a cavallo e la love story con Elena finalmente compiuta, e vissero felici e contenti. Che noia, poteva essere questo l’ultimo atto di Uncharted?

Sono passati diversi anni dall’ultima avventura, Nathan ha comprato casa con Elena e conduce con lei una vita ordinaria, con un lavoro ordinario a riempire le giornate passate, che fra un’immersione e una partita alla PlayStation passano tranquille. Ogni tanto al nostro capita di ricevere qualche allettante offerta per una ricerca di chissà quale tesoro in qualche angolo del mondo, ma il suo rifiuto è categorico, ha dato un taglio netto con quella vita spericolata: Nathan Drake è ora un uomo ordinario. Con una sgangherata soffitta adibita a “deposito di cimeli”, Nate non manca di ricordare con una certa nostalgia i suoi viaggi e gli incredibili luoghi visitati in passato, ma nonostante qualche tentennamento il nostro protagonista sembra ormai resistere del tutto al richiamo dell’avventura.
L’incontro con il suo ritrovato fratello, creduto morto a seguito di una disperata fuga da una prigione 15 anni addietro, assume l’aspetto di un fulmine a ciel sereno sulla routine quotidiana di Nathan. Samuel Drake ha infatti contratto un enorme debito dal pericoloso boss della malavita Hector Alcazar, suo compagno di cella, che lo ha aiutato a fuggire di prigione dopo aver ascoltato la sua storia sul tesoro del pirata Henry Avery, un enorme bottino che Sam e Drake stavano cercando insieme ad un atro socio: Rafe.
Con pochi mesi concessi da Hector a Sam per trovare il tesoro, Nate si vede costretto ad aiutare suo fratello in questa disperata impresa, e come se non bastasse anche il loro vecchio socio Rafe è sulle sue tracce, forte di un’alleanza con la caparbia Nadine Ross e il suo esercito di mercenari.


Uncharted 2 iniziava catapultandoci in un evento futuro (la celebre sequenza del treno), Uncharted 3 ci portava nel passato (l’incontro tra un giovane Nate e Sullivan). Il quarto capitolo, quasi ad elevarsi a summa dei due, fa entrambe le cose. La scena a bordo di una barca in un mare in tempesta su cui il gioco evidentemente tornerà, lascia il posto ad un capitolo ambientato durante l’infanzia di Drake, allo scopo di presentarci suo fratello in prigione, per poi fare un ulteriore passo in avanti nel tempo, con il capitolo della prigione. Nel primo quarto di gioco le scene di intermezzo sono molte, nonché più lunghe rispetto a quanto ci ha abituato la serie, e se questo ha il pregio di approfondire i personaggi in scena, potrebbe far storcere il naso a coloro che amano catapultarsi subito nell’azione.

Fortunatamente non bisognerà attendere molto prima che Uncharted torni a fare l’Uncharted, fra infiltrazioni, sparatorie e inseguimenti mozzafiato, riuscendo a conti fatti a raggiungere quella perfetta armonia tra narrato e giocato, a lungo inseguita negli anni passati.
In Uncharted 4 non si ha mai quella sensazione di “ok posa il pad, ora tocca ai 20 minuti di telefilm”: nel lavoro Naughty Dog il giocatore è prima di tutto, merito di un ormai inesistente minimo stacco tra cut-scene, ora calcolate totalmente in tempo reale, e mondo di gioco, in una perfetta simbiosi tra regia cinematica e game design, con il risultato che avremo il sentore di aver vissuto una grande avventura dall’inizio alla fine, e non di aver assistito ad una storia intervallata da qualche fase ludica.
La storia di Uncharted 4 è una storia di fratellanza, di scelte e di conflitti, ma soprattutto è la storia di una vita, quella di Drake, ora ad un bivio definitivo, con il tema del viaggio anche questa volta allegoria di un percorso di esistenza. Gli sguardi, tanti e magistrali, mai come in questo “gioco” raccontano più delle parole stesse, con il duo Neil Druckman e Bruce Straley che in tal senso si ripete alla direzione, dopo l’emozionante The Last of Us, senza però andare a contaminare lo spirito di una serie ad esso così distante come lo è Uncharted. Dire oltre si incapperebbe nel facile spoiler, ma va rimarcato il come Naughty Dog sappia toccare le corde giuste anche sul lato nostalgico; fin dai titoli di coda di Crash Team Racing, che ripercorrevano con delle illustrazioni la trilogia originale, tramite Uncharted 4 ci ricaschiamo con una splendida sequenza introduttiva, la stessa soffitta di Drake e pure una simpatica sequenza di gioco-nel-gioco che va ben oltre il banale easter egg, tant’è perfettamente integrata nel contesto.


Sulla parte giocata le parole d’ordine sono “varietà” e “armonia”. La varietà è concessa dall’ambiente, ora più vasto che mai, con aree che si stagliano non solo in metratura ma anche in altezza, e grazie alla corda di Drake è ora possibile attaccare dall’alto o penzolare come una scimmia sulle varie pendenze di gioco. Pur premiando un sistema stealth, questo, nonostante alcune novità, come la possibilità di “marchiare” i nemici, non si dimostra sufficientemente profondo (non è per esempio possibile spostare i corpi come in Metal Gear Solid) da risultare imprescindibile; con una discreta amministrazione ambientale (coperture), granate e scazzottate, Uncharted 4 è terminabile anche con un approccio “alla Rambo”, lasciando al giocatore libertà di scelta. Dopo le oculate bottigliate/mattonate tirate in testa ai mutanti di The Last of Us, si torna quindi all’ignoranza di Uncharted votata ad un più spensierato divertimento action fracassone, è pertanto consigliabile selezionare subito una difficoltà più alta per chi è in cerca di una sfida maggiore grazie ad una IA notevolmente migliorata (questo dopo The Last of Us), che vede i nemici pattugliare zone più ampie e comportarsi diversamente in base all’ambiente circostante.


L’armonia è quella che unisce invece le due anime della serie Uncharted: esplorazione e azione. La schematicità dei primi capitoli (specie il primo) che vedeva il gioco progredire ad un ritmo binario (arrampicata, piazzola con sparatoria, arrampicata, piazzola con sparatoria) è ormai un retaggio del passato: in Uncharted 4 l’azione è perfettamente integrata in qualunque contesto e può impostarsi in qualunque momento, con il risultato che nessuna delle due prevale sull’altra, complice anche un magistrale utilizzo della telecamera. Tornano inoltre le fasi su veicoli, e veniva da chiedersi perché già in Drake’s Fortune si poteva risalire le rapide su una moto d’acqua, mentre nei suoi due sequel, niente. Laddove però in Uncharted 1 era il gioco a dirti quando salire e quando scendere dalla moto d’acqua, senza più risalirne, in Uncharted 4 i veicoli sono parte integrante dell’esplorazione, sia per la Jeep che per quanto riguarda la barca. Presente all’appello anche la “terza anima” della serie, anche se, pure questa volta, in modo abbastanza marginale, ossia quella relativa agli enigmi, i quali non raggiungono certo livelli di inventiva o complessità avvisabili in un’avventura grafica, ma che si dimostrano comunque un gradevole diversivo tra un’arrampicata e l’altra.

Sul comparto grafico risulta difficile aggiungere cose che non siano state ampiamente trattate altrove, e in modo più specifico, che ormai l’avrà recensito anche Donna Moderna. Aggettivi banali come “sbalorditivo” e “maestoso” trovano comunque perfettamente posto nel contesto dell’ultimo lavoro dei Naughty Dog, che ancora una volta alzano il livello tecnico su console, andando ad annichilire i più scettici.
Uncharted 4 non è un open world, non tende quindi a mostrare muscoli dal punto di vista espansivo, ma ammalia con una cura del dettaglio maniacale sia nei modelli dei personaggi (semplicemente pazzeschi) che negli ambienti. Dalla splendida costiera amalfitana allo sconfinato Madagascar, passando per le fredde grotte della Scozia, ogni luogo di Uncharted 4 ha le sue peculiarità, il suo clima, i suoi bellissimi panorami, conferendo loro un aspetto unico e pulsante, suggestivo e irripetibile, da far venire subito voglia di rivisitarlo a fondo. Il tutto aggraziato da effetti di illuminazione globale di ultima generazione, negli esterni come negli interni, padronanza assoluta di elementi come acqua, vento, fumo di esplosioni, polvere sugli scaffali (!) e blur utilizzato nel modo giusto.
Rare sbavature, come può essere del dithering su alcune ombre, o la scelta di rimanere ancorati ai 30 frame al secondo (il multiplayer invece è a 60) non inficiano quella che è una produzione monumentale, che crea un solco tra sé e quanto visto in precedenza, con l’auspicio che altri prendano a riferimento l’ultima fatica dei Naughty Dog. Budget permettendo chiaramente, citando un altro first party come Horizon: Zero Dawn che potrebbe settare nuovi standard su PS4, ma i Guerrilla Games non si sono in passato dimostrati altrettanto affidabili quanto i cagnacci californiani, che assimilano e dettano come pochi altri.


Decisivo anche il sonoro, nonostante il compositore cambiato (ma la main thene è al suo posto); gli effetti audio sono ancora più realistici, per esempio una granata che vi esplode a pochi metri la sentirete eccome, rispetto ai vecchi Uncharted.
Ottimo anche il doppiaggio italiano, che si piazza al passo di quello originale come qualità recitativa migliorando ulteriormente labiale e mixaggio, variabile in base alla distanza tra i personaggi (o l’ambiente, per esempio l’eco di una grotta) ma che al contempo evita quei piccoli problemi che affliggevano il doppiaggio di The Last of Us, in cui bastava dare di spalle a Ellie per non capire quasi una mazza di quello che diceva.

Il multiplayer è stato provato prima nella beta di qualche mese fa e ora in questa versione definitiva, dimostrandosi a conti fatti nulla di rivoluzionario ma sufficientemente divertente, seppur ancora avaro in contenuti. Scelta comunque condivisibile, quella di occuparsi innanzitutto di confezionare un prodotto single-player all’altezza in tempo per la sua uscita, per poi aggiungere contenuti per il multiplayer con il passare del tempo, e gratuitamente.

 
Il raccontato non ambiva a ripetere l’irripetibile giacché Uncharted non è The Last of Us, ma eleva la serie ad un grado di maturazione reclamando una collocazione di prestigio nel salone dei grandi videogiochi. La azione si preserva dalla monotonia dello sparo/riparo ad oltranza per offrire una maggiore varietà, esprimendo attorno a sé maggior spazio di manovra. Si può anche stare a cercare l’imperfezione, e prima o poi ve ne si trovano, salvo poi decidere che a prevalere è l’appagamento incontestabile dell’avventura. Che non è solo grafica, la quale in ogni caso completa l’eccellenza che in raggiro dei limiti tecnici della PS4 1.0, crea in data 10/5/2016 un solco tra sé e il resto, il pre e il post Uncharted 4, tramite il quale chiunque aneli a limitrofi traguardi dovrà confrontarsi, non prima di averne tessute le lodi.