Recensione
Si tratta di un ipotetico sequel della famosa serie televisiva, uscito nel 1998. Purtroppo la durata relativamente esigua fa sì che ci si trovi di fronte a una trama abbastanza scarna, priva di originalità e trita, in quanto molti dei temi già trattati nella serie televisiva e molti eventi che già avevano avuto larga trattazione nei lungometraggi precedenti vi vengono riproposti tanto per allungare un brodo che di suo è già poco saporito.
La prima grande pecca sta nel ritorno del Tetsuro brutto, ancora di più rispetto alla serie anime in quanto vittima di totale abbandono a se stesso a causa della prigionia in cui è caduto sulla Terra. Il suo carattere non è neppure cambiato, per cui al Tetsuro intraprendente e coraggioso, ma saggio e riflessivo, dei due lungometraggi si contrappone questo mostriciattolo piagnucoloso, avventato, stupido e irritante che tanto eredita da quello della serie televisiva, il cui carattere è aggravato ancora di più dalla mancanza di coerenza della trama.
Eppure l’inizio del film prometteva bene con il suo apparato grafico e con l’apparizione di una Maetel sempre più enigmatica. Peccato che l’enigmaticità della donna cada nella vacuità della sua personalità, pecca che il passare degli anni purtroppo non ha ancora cancellato o attenuato.
Peccato che molti spunti non siano stati approfonditi, che il perno da cui si dipartono tutte le azioni dei personaggi perda il suo centro per fare implodere la struttura stessa del film in uno scorrere di immagini e di dialoghi senza nessun filo logico.
Neanche i nuovi personaggi riescono a dare quella vitalità che manca alla trama del film. Helmazaria, una specie di cavaliere-donna, le sembianze della cui armatura ricordano fascinosamente le corazze dei cavalieri medievali, sembra all’inizio un personaggio fortemente carismatico per la forza, il fascino legato al suo mistero, la durezza e la determinazione. Non si capirà mai quale possa essere stato il motivo che l’abbia spinta a combattere, né verrà trattata l’analisi del suo carattere e della sua storia pregressa. La fine poco onorevole che le viene riservata, inoltre, dà lo scacco a uno dei personaggi più particolari della saga di Galaxy Express.
Accenni sulla trama degli antefatti vengono solo tirati fuori nei dialoghi senza proseguire ulteriormente, senza approfondire il carattere delle figure di contorno e soprattutto dei nemici contro cui i protagonisti si agitano in vane azioni dall’inizio alla fine. Il film, in conclusione, non dimostra nessuna delle grandi qualità di caratterizzazione storicamente riconosciute a Matsumoto.
Non parliamo poi di alcune cattive trovate, come quella della personificazione del 999. Una figura femminile, quasi simile a una sottospecie di alieno, fa la sua comparsa nella sala macchine del Galaxy Express. Con le qualità decisamente umane di questa personificazione si manda a quel paese il fascino freddo di una macchina intelligente, la sua irremovibilità di fronte ai sentimenti umani, brutti o belli che siano. Inoltre, la vacuità di questa personificazione, la sua insignificanza ai fini delle vicende, la dice lunga sulla piattezza dei personaggi.
Stessa vacuità nel prospettarsi del finale: la possibilità che la Terra scompaia definitivamente diventa l’oggetto principale di un dialogo tra Harlock e Tetsuro, che come sempre non fa altro che piangere e disperarsi. Un finale aperto era la cosa meno desiderabile: non si capisce di preciso che cosa succederà e per mano di chi, e che parte avranno Tetsuro e Maetel nello svolgersi della resistenza contro nemici ben poco connotati. La comparsa finale dei personaggi cari a Matsumoto, senza un legame apparente con le logiche della narrazione, sembra solo essere un coronamento alla loro fortuna negli anni, un vuoto compiacimento fine a se stesso.
La destinazione finale del 999 è cambiata, è diretta a un misterioso Dipartimento di Scienze. Il film, dunque è un antefatto. Tutto qui. La vera trama verrà poi, ma quando?
Meno male che almeno il comparto tecnico dà la giusta soddisfazione a uno spettatore esaurito dalla mancanza di contenuti. Si tratta infatti di uno dei lungometraggi meglio riusciti su questo fronte.
La regia di Uda Kônosuke è frutto di scelte coscienti. Le scene sono ben tagliate, di grande respiro, soprattutto quelle relative ai movimenti del Galaxy Express. I pochi momenti di pathos sono resi con l’efficacia delle inquadrature. Non si possono poi di certo dimenticare le scene delle battaglie dell’Arcadia, condotte superbamente, dove lo spettatore si può gloriare dei ricordi dei migliori combattimenti spaziali cari a Matsumoto, con l’unico rammarico che si tratta di un breve sprazzo. Il tocco più alto di regia è quello relativo alle scene del passaggio del 999 su Plutone. La rappresentazione visiva dei ricordi vi tocca l’apice dell’empatia con lo spettatore, riuscendo a comunicare su Maetel ciò che tutte le vane ciance del film non hanno fatto.
La bellezza della regia è accompagnata da quella della fotografia, opera di Hosoda Tamio. Colori a volte nitidi, a volte decisi e resi per contrasti forti, a volte talmente sfumati da creare atmosfere fiabesche ci regalano emozioni intense, che da sole valgono tutto il film. I fondali sono altrettanto evocativi. Non si possono dimenticare le immagini del pianeta Tecnologhia, sospese tra scientifico e surreale; non si possono dimenticare le distese ghiacciate di Plutone, il cui impatto visivo supera stavolta quelle di ogni prodotto precedente.
Altrettanto può dirsi del character design, opera di Kagami Takahiro sotto la supervisione dello stesso Matsumoto. La presenza del maestro è un dato incontrovertibile. Un tratto maturo, deciso, la presenza di chiaroscuri, di volti espressivi ne denotano la maturità e la coscienza di un genio. A ciò si aggiunge la bellezza delle animazioni, forse anche più belle di quelle dei due lungometraggi precedenti. La fluidità dei movimenti è unica, per cui compensa spesso la ricorrente mancanza di trama.
Le musiche, composte da Takakuwa Tadao, non sempre sono coinvolgenti. Sì, non mancano di maestosità, ma spesso cadono nella monotonia dei temi, che salta ancora di più all’orecchio se si considera che il film non arriva neanche a un’ora. I picchi però ci sono, soprattutto nelle soavi note che si dispiegano al passaggio sul pianeta Plutone. La vita di Maetel, la sua sofferenza, trovano la giusta resa in un’accoppiata riuscitissima, tra fondali, colori, animazioni e musiche suggestivi. Le voci liriche che accompagnano i violini riescono a toccare con la loro intensità le corde di qualunque cuore. Peccato che sia solo questo il picco veramente notevole. Per il resto non c’è nulla di particolarmente emozionante.
La perfezione del comparto tecnico di certo non può salvare un’opera dal fallimento. Se quell’opera non riesce a comunicare nulla di realmente significativo, se non si riesce a trasmettere nessuna filosofia al di là delle parole dette lì per lì dai personaggi, è difficile che essa riesca a rimanere impressa in chi la vede. Il nove dato al lato tecnico non può compensare il tre all’impianto narrativo. Il voto finale, dunque, è il risultato della discrepanza tra i due livelli, ne restituisce il giudizio su un’opera e su quante numerose potenzialità non siano state in essa sfruttate.
La prima grande pecca sta nel ritorno del Tetsuro brutto, ancora di più rispetto alla serie anime in quanto vittima di totale abbandono a se stesso a causa della prigionia in cui è caduto sulla Terra. Il suo carattere non è neppure cambiato, per cui al Tetsuro intraprendente e coraggioso, ma saggio e riflessivo, dei due lungometraggi si contrappone questo mostriciattolo piagnucoloso, avventato, stupido e irritante che tanto eredita da quello della serie televisiva, il cui carattere è aggravato ancora di più dalla mancanza di coerenza della trama.
Eppure l’inizio del film prometteva bene con il suo apparato grafico e con l’apparizione di una Maetel sempre più enigmatica. Peccato che l’enigmaticità della donna cada nella vacuità della sua personalità, pecca che il passare degli anni purtroppo non ha ancora cancellato o attenuato.
Peccato che molti spunti non siano stati approfonditi, che il perno da cui si dipartono tutte le azioni dei personaggi perda il suo centro per fare implodere la struttura stessa del film in uno scorrere di immagini e di dialoghi senza nessun filo logico.
Neanche i nuovi personaggi riescono a dare quella vitalità che manca alla trama del film. Helmazaria, una specie di cavaliere-donna, le sembianze della cui armatura ricordano fascinosamente le corazze dei cavalieri medievali, sembra all’inizio un personaggio fortemente carismatico per la forza, il fascino legato al suo mistero, la durezza e la determinazione. Non si capirà mai quale possa essere stato il motivo che l’abbia spinta a combattere, né verrà trattata l’analisi del suo carattere e della sua storia pregressa. La fine poco onorevole che le viene riservata, inoltre, dà lo scacco a uno dei personaggi più particolari della saga di Galaxy Express.
Accenni sulla trama degli antefatti vengono solo tirati fuori nei dialoghi senza proseguire ulteriormente, senza approfondire il carattere delle figure di contorno e soprattutto dei nemici contro cui i protagonisti si agitano in vane azioni dall’inizio alla fine. Il film, in conclusione, non dimostra nessuna delle grandi qualità di caratterizzazione storicamente riconosciute a Matsumoto.
Non parliamo poi di alcune cattive trovate, come quella della personificazione del 999. Una figura femminile, quasi simile a una sottospecie di alieno, fa la sua comparsa nella sala macchine del Galaxy Express. Con le qualità decisamente umane di questa personificazione si manda a quel paese il fascino freddo di una macchina intelligente, la sua irremovibilità di fronte ai sentimenti umani, brutti o belli che siano. Inoltre, la vacuità di questa personificazione, la sua insignificanza ai fini delle vicende, la dice lunga sulla piattezza dei personaggi.
Stessa vacuità nel prospettarsi del finale: la possibilità che la Terra scompaia definitivamente diventa l’oggetto principale di un dialogo tra Harlock e Tetsuro, che come sempre non fa altro che piangere e disperarsi. Un finale aperto era la cosa meno desiderabile: non si capisce di preciso che cosa succederà e per mano di chi, e che parte avranno Tetsuro e Maetel nello svolgersi della resistenza contro nemici ben poco connotati. La comparsa finale dei personaggi cari a Matsumoto, senza un legame apparente con le logiche della narrazione, sembra solo essere un coronamento alla loro fortuna negli anni, un vuoto compiacimento fine a se stesso.
La destinazione finale del 999 è cambiata, è diretta a un misterioso Dipartimento di Scienze. Il film, dunque è un antefatto. Tutto qui. La vera trama verrà poi, ma quando?
Meno male che almeno il comparto tecnico dà la giusta soddisfazione a uno spettatore esaurito dalla mancanza di contenuti. Si tratta infatti di uno dei lungometraggi meglio riusciti su questo fronte.
La regia di Uda Kônosuke è frutto di scelte coscienti. Le scene sono ben tagliate, di grande respiro, soprattutto quelle relative ai movimenti del Galaxy Express. I pochi momenti di pathos sono resi con l’efficacia delle inquadrature. Non si possono poi di certo dimenticare le scene delle battaglie dell’Arcadia, condotte superbamente, dove lo spettatore si può gloriare dei ricordi dei migliori combattimenti spaziali cari a Matsumoto, con l’unico rammarico che si tratta di un breve sprazzo. Il tocco più alto di regia è quello relativo alle scene del passaggio del 999 su Plutone. La rappresentazione visiva dei ricordi vi tocca l’apice dell’empatia con lo spettatore, riuscendo a comunicare su Maetel ciò che tutte le vane ciance del film non hanno fatto.
La bellezza della regia è accompagnata da quella della fotografia, opera di Hosoda Tamio. Colori a volte nitidi, a volte decisi e resi per contrasti forti, a volte talmente sfumati da creare atmosfere fiabesche ci regalano emozioni intense, che da sole valgono tutto il film. I fondali sono altrettanto evocativi. Non si possono dimenticare le immagini del pianeta Tecnologhia, sospese tra scientifico e surreale; non si possono dimenticare le distese ghiacciate di Plutone, il cui impatto visivo supera stavolta quelle di ogni prodotto precedente.
Altrettanto può dirsi del character design, opera di Kagami Takahiro sotto la supervisione dello stesso Matsumoto. La presenza del maestro è un dato incontrovertibile. Un tratto maturo, deciso, la presenza di chiaroscuri, di volti espressivi ne denotano la maturità e la coscienza di un genio. A ciò si aggiunge la bellezza delle animazioni, forse anche più belle di quelle dei due lungometraggi precedenti. La fluidità dei movimenti è unica, per cui compensa spesso la ricorrente mancanza di trama.
Le musiche, composte da Takakuwa Tadao, non sempre sono coinvolgenti. Sì, non mancano di maestosità, ma spesso cadono nella monotonia dei temi, che salta ancora di più all’orecchio se si considera che il film non arriva neanche a un’ora. I picchi però ci sono, soprattutto nelle soavi note che si dispiegano al passaggio sul pianeta Plutone. La vita di Maetel, la sua sofferenza, trovano la giusta resa in un’accoppiata riuscitissima, tra fondali, colori, animazioni e musiche suggestivi. Le voci liriche che accompagnano i violini riescono a toccare con la loro intensità le corde di qualunque cuore. Peccato che sia solo questo il picco veramente notevole. Per il resto non c’è nulla di particolarmente emozionante.
La perfezione del comparto tecnico di certo non può salvare un’opera dal fallimento. Se quell’opera non riesce a comunicare nulla di realmente significativo, se non si riesce a trasmettere nessuna filosofia al di là delle parole dette lì per lì dai personaggi, è difficile che essa riesca a rimanere impressa in chi la vede. Il nove dato al lato tecnico non può compensare il tre all’impianto narrativo. Il voto finale, dunque, è il risultato della discrepanza tra i due livelli, ne restituisce il giudizio su un’opera e su quante numerose potenzialità non siano state in essa sfruttate.