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<i>Si dice che ogni volta si vedano degli uccelli volare nel cielo si senta il bisogno d'intraprendere un viaggio</i>, ma il viaggio non sarà un semplice errare senza meta, ma la scoperta del mondo, in particolare quello interiore, una ricerca della conoscenza e di se stessi.
Tale è il viaggio di Kino, un peregrinare verso l'animo umano e il suo dolore, un capolavoro di tenera malinconia e disincantato cinismo, una sfida di ermeneutica filosofica che conosce pochi degni rivali.
Al progetto prendono parte nomi eccellenti - già meritevoli della partecipazione a titoli notevoli -, diretto da Nakamura Ryutaro, proveniente da "Serial experiments lain" e sceneggiato da Murai Sadayuki, da "Boogiepop Phantom".

Rimarchevole merito dell'opera è la propria chiarezza. Pur essendo una composizione simbolista essa non si ottenebra in un serrato ermetismo come tipicamente avviene, ma intraprende una differente scelta che, coadiuvata da un saggio apporto registico, permetta una puntuale esplicazione dei temi trattati senza scadere in banali artifici tecnici. L'evidenza espositiva, per quanto in prima approssimazione, non inficia in modo alcuno la profondità dei temi sviscerati, che anzi sovente concernono gravosi dilemmi morali e paradossi logici, spaziando dalla sociologia alla gnoseologia, dalla psicologia all'ontologia, dall'etica alla deontologia.
Non è tuttavia da pensarsi che una visione precisa e puntuale non permetta di sviscerare tutti i secondari dettagli che portano alla costituzione dell'integrità dell'opera, particolari i quali verranno colti solo attraverso tale visione successiva e meticolosa e che altrimenti rimarrebbero obliati di primo acchito.

Il simbolico viaggio della vita della giovane Kino, la porterà attraverso diversi paesi dalle peculiari usanze e istituzioni. In questo verranno poste severe sentenze volte a indagare complicati aspetti della realtà, da quello teoretico a quello pratico.
In questo possente inno al nichilismo verrà specialmente sollevata una feroce e impassibile critica alla società, alle tradizioni e all'etica. L'intera opera è improntata al più completo pessimismo antropologico e il suo amaro cinismo accompagnerà con dolce malinconia il finale di ogni vicenda. Lo stesso messaggio conclusivo è la fuggevolezza della letizia per gli uomini e l'insensatezza della realtà, la quale non può essere vincolata da regole e schemi, in una sorta di nietzschiana rivelazione della cruda verità.
Il dolore è insito nell'uomo - queste parole la serie bisbiglia soavemente ma con persistenza - e la sua sede non si trova se non nell'intimo di lui stesso, il seme della distruzione, la metafora del proprio Es, che trascina l'intera realtà in una spirale di assurdità, follia che fonda la società stessa. Dunque, cercando le regole che muovono quest'ultima e una garanzia della sua giustizia, si concluderà nell'impossibilità di trovare una risposta, o meglio, nella certezza dell'inesistenza degli elementi cercati.

La viaggiatrice, metafora del filosofo, prosegue nel suo cammino, uno specchio vuoto e distaccato nel quale si riflettono le persone da lei incontrate e le civiltà da lei conosciute. Se spesso gli individui presentati paiono trascinarsi in una vita vacua, senza una meta che motivi le proprie fatiche se non l'attesa della fine dei propri giorni, la viaggiatrice medesima non è dissimile da loro, mossa in un viaggio virtualmente senza fine, eccettuata la propria stessa distruzione, simboleggiata sia dalla morte sia dal vincolarsi a un luogo, un'odissea perniciosa che porta la filosofa a conoscere sempre più a fondo gli abissi di tenebra che sono alla radice dell'intimo animo umano, in una disincantata ricerca della verità. In questa sofferenza però Kino non risponderà alla richiesta di spiegare la cagione di tale prosecuzione, forse ingannando se stessa o magari non essendole possibile fare altrimenti. Illuminante è a tale riguardo una breve conversazione tenuta con Hermes, la quale prende luogo nella traversata di un fiume sotto a un cielo stellato: <i>"Mi immergo nei pensieri in momenti come questo.", "Che pensieri?", "Il significato del viaggio e della vita.", "E' una malattia comune a tutti gli uomini.", "Mi domando se domani il cielo sarà blu."</i>

Le storie narrate si intrecciano secondo una catena ad anelli, alternando nell'esposizione i differenti topoi suddivisi in episodi non contigui, costituendo un dialogico gioco di rimandi e risposte.
In "Kino no Tabi" tuttavia le risposte hanno un ruolo secondario, relegate a mere comparse, in quanto sono le domande la vera essenza dell'opera, le quali spesse volte non saranno risolubili non essendo possibile scioglierne il dilemma in modo alcuno, come nel tentativo di discernere realtà e illusione, che si rileverà non essere nemmeno una questione, poiché la stessa definizione di realtà altro non è che una creazione dell'uomo stesso, un'ente ideale.

Tecnicamente l'opera gode di un ricercato ed elegante minimalismo, un'ostentata pacatezza che vela ogni respiro, in un mondo dai colori ovattati e spenti. La colonna sonora segue i medesimi principi, senza mai incalzare né appropriarsi della scena, ma pizzicando l'attenzione dello spettatore ove necessario, tacendo altrimenti.
Unico limite della composizione è l'univocità delle proprie deduzioni, che la portano a esaurirsi dopo successive letture contrariamente ai grandi pilastri dell'animazione simbolista che, essendo studiati per essere lavori aperti, non permettono mai il raggiungimento di una soluzione.
"Kino no Tabi" si presenta come la più compiuta opera estesa prettamente filosofica dell'animazione orientale, un lavoro eccezionale che merita di partecipare al firmamento delle migliori composizioni, una rara perla di pessimismo esistenziale e di nichilismo, che dovrebbe essere ben più valorizzata.

<i>Il mondo non è meraviglioso: e per questo lo è.</i>