Recensione
<i>Makoto Shinkai</i> è un giovane talento: lo si comprende dopo avere visto il suo ultimo prodotto. <b>Hoshi o ou Kodomo</b> racconta per l’ennesima volta il tema caro al regista, quello del distacco, ma in tale circostanza lo incastona su un registro di grande respiro. Non si tratta più del distacco tra due persone innamorate, portate dalle vicende della vita a seguire strade diverse e incompatibili.
Nella fase iniziale<b> Hoshi o ou Kodomo</b> illude lo spettatore: con i suoi colori tersi e gli scenari, su cui si innesta una trama apparentemente elementare, lo proietta in un’ambientazione fiabesca. Ma un tono ben dissonante subentra al di là del passaggio a livello, tanto caro al regista, cosicché proseguendo la visione comincia a primeggiare un’atmosfera immersa in un’alterità oltremondana con profondi accenti mistici.
<i>Shinkai</i> non narra con le parole. Lui si serve delle immagini, essendo dotato di un talento fuori dal comune nel renderle talmente vivide da farle sembrare delle istantanee scattate da un sognatore. Le quali, in <b>Hoshi o ou Kodomo</b>, mostrano un autore più maturo, più riflessivo e profondo, capace di impegnare il linguaggio dell’animazione su un excursus di vita e morte. Agartha è quel mondo dalle arcane radici mitiche che ci separa dai nostri cari, legati all’aldiquà con lontani echi simili a una canzone proveniente dalle stelle. Ecco, dunque, il salto da <i>Byousoku 5 Centimeter</i>.
Ciò che si percepisce dallo svolgimento del lungometraggio è una dimensione di lunga durata; sembra che si stia raccontando una storia d’età pari a quella dell’esistenza del cosmo. E Agartha non è la semplice proiezione di un mondo fiabesco così immaginato da <i>Shinkai</i>. Vero è che molti scenari riportano alla mente accenti miyazakiani alla <i>Laputa</i>, ma in <b>Hoshi o ou Kodomo</b> viene indagato in tutte le sue recondite pieghe ciò che in <i>Laputa</i> è solo accennato. Rovine appartenenti a civiltà superbe del passato sono esplorate in ogni anfratto. Tra ruderi di fortezze ormai dismesse dal tempo si svolgono le sequenze d’inseguimento più dinamiche degli ultimi tempi, immerse in una fotografia cangiante come la varietà diurna della luce del sole.
<b>Hoshi o ou Kodomo</b> sembra più lungo di quanto non sia in realtà: ogni fase della vita quotidiana di una ragazzina, studentessa modello, è raccontata con un compiacimento quasi lezioso per i più piccoli dettagli. La minuzia è sempre stata caratteristica dei prodotti realizzati da <i>Shinkai</i>, ma qui è talmente ostentata da sembrare quasi superflua. Tuttavia, a ben vedere in <b>Hoshi o ou Kodomo</b> tutto ha senso in funzione del passaggio tra due dimensioni: il lungometraggio imposta in modo fluido e ricorsivo un raccordo simbolico tra la vita, così piana e lineare, piena di piccoli gesti quotidiani, e la morte, o ciò che potrebbe essere, certo un mondo dove si respira eternità, quasi la stasi del tempo.
L’aura cosmica traspira dalle figure solitarie ed ermetiche dei guardiani, chiamati, con ispirazione agli Aztechi, Quetzal Coatl, figure zoomorfe di chiaro stampo sumero-babilonese, che racchiudono millenni di storia nel proprio enigmatico silenzio. Agartha somiglierebbe a un eden di vaga derivazione mesopotamica con accenti tibetani e richiami alla funeraria megalitica, e lo Shakuna Vimana, a dispetto di un nome pregno di antico vedismo, potrebbe ricordare un’elusiva barca solare che traghetta le anime nel punto più riposto e inaccessibile dell’universo, secondo l’affascinante soteriologia egizia. <b>Hoshi o ou Kodomo</b> racconta il trapasso, e lo fa con una figurazione colma di filosofia e di grande consapevolezza storico-religiosa: è la summa di un viaggio cosmopolita trasposto in una dimensione in cui i confini tra le barriere culturali sfumano.
L’afflato d’eternità non investe di certo lo spettatore per il tramite della storia o dei dialoghi, ma con immagini più silenziose, in cui scenari immensi imbastiscono un grande ordito simbolico che fa da contrappunto al dettaglio imperante nella fase iniziale del lungometraggio. I personaggi protagonisti, a dire il vero, non sono poi tanto carismatici, non sanno dare molto d’inedito a uno spettatore abituato alle vicende che li vedono al centro. Di contro non è facile dimenticare il trasporto emotivo suscitato dalla figura di una divinità dai mille occhi che osserva un Orfeo del ventunesimo secolo giunto al capolinea della vita alla ricerca disperata della sua amata. La comunicazione avviene a livello empatico, nel passaggio dalla densa socialità dei dialoghi quotidiani alla muta solitudine di luoghi eremitici troppo lontani dal trantran umano, in un movimento ascetico diretto al trascendente. Il ricordo, componente ineliminabile della vita, si esprime in flashback accennati e staccati – con una resa grafica discorde – dalla linea della narrazione. A ciò si accompagna il continuo e ricorrente motivo del trapasso tra due piani temporali: la ferrovia è il diaframma simbolico tra il quotidiano e l’eterno, tra il tempo sacro e quello profano. Una dicotomia, quella tra sacro e profano, che si respira nello stesso ritmo della narrazione, a tratti convulsa e impetuosa, come lo scorrere insignificante del tempo profano, a tratti distesa, molle, pervasa da una lentezza grande come il respiro di un millennio. L’asse comunicativo di <b>Hoshi o ou Kodomo</b> è disposto su una prospettiva verticale: il movimento di ascesa presuppone una discesa nei più intimi recessi dell’esistenza umana.
Il grande quadro mistico dipinto da <i>Shinkai</i> si avvale di sfondi a dir poco sensazionali, in cui emerge un pittoricismo più impreciso e sfumato rispetto al dettaglio fotografico del precedente <i>Biousoku 5 Centimeter</i>. La profondità degli orizzonti è inedita, così come la resa dell’infinità del cielo. Il suo abisso simboleggia l’eternità di un mito onnipresente nelle culture umane, quello dell’aldilà.
Nonostante il virtuoso apparato grafico non si può trascurare la goffaggine del chara design, volutamente ghibliano e un po’ troppo forzato e artefatto nella scelta di ossequiarne i canoni. Scelta che ricade sull’originalità delle espressioni e delle movenze, costringendo in ranghi forse un po’ troppo severi la vena creativa del designer <i>Nishimura</i>. D’altronde i richiami al mondo <b>Ghibli</b>, e a <i>Miyazaki</i> in particolare, sono evidenti, non soltanto sul versante grafico, ma anche e soprattutto su quello narrativo.
Il legame tra i due protagonisti rievoca alla mente dello spettatore allenato a <i>Miyazaki</i> la classica storia di formazione delle opere del grande maestro, in cui ricorrente è quella complicità tra adolescenti appena sfiorata e mai palesata attraverso un esplicito contatto carnale. Ma si tratta di stilemi esteriori rielaborati in modo autonomo da <i>Shinkai</i>: in <b>Hoshi o ou Kodomo</b> la somiglianza alle opere <b>Ghibli</b> è superficiale, non vi saranno mai le contrapposizioni ideologiche tipiche di <i>Miyazaki</i>, né la simbolizzazione di conflitti generazionali, a lui tanto cara. Il giovane fan di <i>Miyazaki</i> farà tesoro dei preziosismi visivi del maestro per intraprendere una propria strada, sia sotto il profilo stilistico sia sotto quello contenutistico.
Il comparto sonoro, opera dell’ormai fedele <i>Tenmon</i>, non è purtroppo in grado di dare respiro al film, incapace di emergere dalla sua potenza figurativa e risultando in alcuni casi persino sovrabbondante e retorico. I grandi accenti enfatici appesantiscono spesso le azioni concitate, quasi stonando nell’intenzione di volervisi accompagnare. Non avrebbe guastato, visto il misticismo dilagante di <b>Hoshi o ou Kodomo</b>, un comparto sonoro meno pompato e diretto a dare tono a quelle scene intime – così ricorrenti nel film – che sarebbero diventate veramente poetiche con un’appropriata rifinitura melodica.
<b>Hoshi o ou Kodomo</b> potrebbe per molti esporsi alle stesse critiche di <i>Biousoku 5 Centimeter</i>, soprattutto se si considerano l’impianto della trama, i rapporti tra i due protagonisti e lo spessore dei dialoghi. Ma quando ci si approccia alla visione di <i>Shinkai</i> è bene tenere a mente che siamo di fronte a un giovane talento che ha una grande strada davanti a sé, e che come tutti i talenti ha scelto un percorso personale. Ci si chieda, dunque, prima di guardare un film di <i>Shinkai</i>, perché sia costante, seppure resa diversa da opera a opera, la volontà di perfezione grafica. <i>Shinkai</i> racconta con la vastità delle immagini la profonda solitudine dell’uomo e il suo incessante inseguimento di un desiderio, spesso illusorio e irraggiungibile, come molla quotidiana della vita. <b>Hoshi o ou Kodomo</b> è una variante del tema spinta all’infinito.
Nella fase iniziale<b> Hoshi o ou Kodomo</b> illude lo spettatore: con i suoi colori tersi e gli scenari, su cui si innesta una trama apparentemente elementare, lo proietta in un’ambientazione fiabesca. Ma un tono ben dissonante subentra al di là del passaggio a livello, tanto caro al regista, cosicché proseguendo la visione comincia a primeggiare un’atmosfera immersa in un’alterità oltremondana con profondi accenti mistici.
<i>Shinkai</i> non narra con le parole. Lui si serve delle immagini, essendo dotato di un talento fuori dal comune nel renderle talmente vivide da farle sembrare delle istantanee scattate da un sognatore. Le quali, in <b>Hoshi o ou Kodomo</b>, mostrano un autore più maturo, più riflessivo e profondo, capace di impegnare il linguaggio dell’animazione su un excursus di vita e morte. Agartha è quel mondo dalle arcane radici mitiche che ci separa dai nostri cari, legati all’aldiquà con lontani echi simili a una canzone proveniente dalle stelle. Ecco, dunque, il salto da <i>Byousoku 5 Centimeter</i>.
Ciò che si percepisce dallo svolgimento del lungometraggio è una dimensione di lunga durata; sembra che si stia raccontando una storia d’età pari a quella dell’esistenza del cosmo. E Agartha non è la semplice proiezione di un mondo fiabesco così immaginato da <i>Shinkai</i>. Vero è che molti scenari riportano alla mente accenti miyazakiani alla <i>Laputa</i>, ma in <b>Hoshi o ou Kodomo</b> viene indagato in tutte le sue recondite pieghe ciò che in <i>Laputa</i> è solo accennato. Rovine appartenenti a civiltà superbe del passato sono esplorate in ogni anfratto. Tra ruderi di fortezze ormai dismesse dal tempo si svolgono le sequenze d’inseguimento più dinamiche degli ultimi tempi, immerse in una fotografia cangiante come la varietà diurna della luce del sole.
<b>Hoshi o ou Kodomo</b> sembra più lungo di quanto non sia in realtà: ogni fase della vita quotidiana di una ragazzina, studentessa modello, è raccontata con un compiacimento quasi lezioso per i più piccoli dettagli. La minuzia è sempre stata caratteristica dei prodotti realizzati da <i>Shinkai</i>, ma qui è talmente ostentata da sembrare quasi superflua. Tuttavia, a ben vedere in <b>Hoshi o ou Kodomo</b> tutto ha senso in funzione del passaggio tra due dimensioni: il lungometraggio imposta in modo fluido e ricorsivo un raccordo simbolico tra la vita, così piana e lineare, piena di piccoli gesti quotidiani, e la morte, o ciò che potrebbe essere, certo un mondo dove si respira eternità, quasi la stasi del tempo.
L’aura cosmica traspira dalle figure solitarie ed ermetiche dei guardiani, chiamati, con ispirazione agli Aztechi, Quetzal Coatl, figure zoomorfe di chiaro stampo sumero-babilonese, che racchiudono millenni di storia nel proprio enigmatico silenzio. Agartha somiglierebbe a un eden di vaga derivazione mesopotamica con accenti tibetani e richiami alla funeraria megalitica, e lo Shakuna Vimana, a dispetto di un nome pregno di antico vedismo, potrebbe ricordare un’elusiva barca solare che traghetta le anime nel punto più riposto e inaccessibile dell’universo, secondo l’affascinante soteriologia egizia. <b>Hoshi o ou Kodomo</b> racconta il trapasso, e lo fa con una figurazione colma di filosofia e di grande consapevolezza storico-religiosa: è la summa di un viaggio cosmopolita trasposto in una dimensione in cui i confini tra le barriere culturali sfumano.
L’afflato d’eternità non investe di certo lo spettatore per il tramite della storia o dei dialoghi, ma con immagini più silenziose, in cui scenari immensi imbastiscono un grande ordito simbolico che fa da contrappunto al dettaglio imperante nella fase iniziale del lungometraggio. I personaggi protagonisti, a dire il vero, non sono poi tanto carismatici, non sanno dare molto d’inedito a uno spettatore abituato alle vicende che li vedono al centro. Di contro non è facile dimenticare il trasporto emotivo suscitato dalla figura di una divinità dai mille occhi che osserva un Orfeo del ventunesimo secolo giunto al capolinea della vita alla ricerca disperata della sua amata. La comunicazione avviene a livello empatico, nel passaggio dalla densa socialità dei dialoghi quotidiani alla muta solitudine di luoghi eremitici troppo lontani dal trantran umano, in un movimento ascetico diretto al trascendente. Il ricordo, componente ineliminabile della vita, si esprime in flashback accennati e staccati – con una resa grafica discorde – dalla linea della narrazione. A ciò si accompagna il continuo e ricorrente motivo del trapasso tra due piani temporali: la ferrovia è il diaframma simbolico tra il quotidiano e l’eterno, tra il tempo sacro e quello profano. Una dicotomia, quella tra sacro e profano, che si respira nello stesso ritmo della narrazione, a tratti convulsa e impetuosa, come lo scorrere insignificante del tempo profano, a tratti distesa, molle, pervasa da una lentezza grande come il respiro di un millennio. L’asse comunicativo di <b>Hoshi o ou Kodomo</b> è disposto su una prospettiva verticale: il movimento di ascesa presuppone una discesa nei più intimi recessi dell’esistenza umana.
Il grande quadro mistico dipinto da <i>Shinkai</i> si avvale di sfondi a dir poco sensazionali, in cui emerge un pittoricismo più impreciso e sfumato rispetto al dettaglio fotografico del precedente <i>Biousoku 5 Centimeter</i>. La profondità degli orizzonti è inedita, così come la resa dell’infinità del cielo. Il suo abisso simboleggia l’eternità di un mito onnipresente nelle culture umane, quello dell’aldilà.
Nonostante il virtuoso apparato grafico non si può trascurare la goffaggine del chara design, volutamente ghibliano e un po’ troppo forzato e artefatto nella scelta di ossequiarne i canoni. Scelta che ricade sull’originalità delle espressioni e delle movenze, costringendo in ranghi forse un po’ troppo severi la vena creativa del designer <i>Nishimura</i>. D’altronde i richiami al mondo <b>Ghibli</b>, e a <i>Miyazaki</i> in particolare, sono evidenti, non soltanto sul versante grafico, ma anche e soprattutto su quello narrativo.
Il legame tra i due protagonisti rievoca alla mente dello spettatore allenato a <i>Miyazaki</i> la classica storia di formazione delle opere del grande maestro, in cui ricorrente è quella complicità tra adolescenti appena sfiorata e mai palesata attraverso un esplicito contatto carnale. Ma si tratta di stilemi esteriori rielaborati in modo autonomo da <i>Shinkai</i>: in <b>Hoshi o ou Kodomo</b> la somiglianza alle opere <b>Ghibli</b> è superficiale, non vi saranno mai le contrapposizioni ideologiche tipiche di <i>Miyazaki</i>, né la simbolizzazione di conflitti generazionali, a lui tanto cara. Il giovane fan di <i>Miyazaki</i> farà tesoro dei preziosismi visivi del maestro per intraprendere una propria strada, sia sotto il profilo stilistico sia sotto quello contenutistico.
Il comparto sonoro, opera dell’ormai fedele <i>Tenmon</i>, non è purtroppo in grado di dare respiro al film, incapace di emergere dalla sua potenza figurativa e risultando in alcuni casi persino sovrabbondante e retorico. I grandi accenti enfatici appesantiscono spesso le azioni concitate, quasi stonando nell’intenzione di volervisi accompagnare. Non avrebbe guastato, visto il misticismo dilagante di <b>Hoshi o ou Kodomo</b>, un comparto sonoro meno pompato e diretto a dare tono a quelle scene intime – così ricorrenti nel film – che sarebbero diventate veramente poetiche con un’appropriata rifinitura melodica.
<b>Hoshi o ou Kodomo</b> potrebbe per molti esporsi alle stesse critiche di <i>Biousoku 5 Centimeter</i>, soprattutto se si considerano l’impianto della trama, i rapporti tra i due protagonisti e lo spessore dei dialoghi. Ma quando ci si approccia alla visione di <i>Shinkai</i> è bene tenere a mente che siamo di fronte a un giovane talento che ha una grande strada davanti a sé, e che come tutti i talenti ha scelto un percorso personale. Ci si chieda, dunque, prima di guardare un film di <i>Shinkai</i>, perché sia costante, seppure resa diversa da opera a opera, la volontà di perfezione grafica. <i>Shinkai</i> racconta con la vastità delle immagini la profonda solitudine dell’uomo e il suo incessante inseguimento di un desiderio, spesso illusorio e irraggiungibile, come molla quotidiana della vita. <b>Hoshi o ou Kodomo</b> è una variante del tema spinta all’infinito.