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L’adattamento animato di “Capitan Tsubasa” è famoso in Europa come una delle trasposizioni meno fedeli all’originale in termini di nomi riportati. Infatti non sempre il richiamo al titolo “Capitan Tsubasa” è immediato, ma se siete cresciuti in Italia negli anni ‘90 avrete sicuramente sentito nominare almeno una volta il celeberrimo “Holly & Benji”, che nel bel paese, vista l’indomita nostrana passione per il calcio, ebbe un successo spropositato.
Nel cartone animato Tsubasa Ozora diventava Holliver Hutton, Genzo Wakabayashi Benji Price, Kojiro Hyuga Mark Lenders, Jun Misugi Julian Rose, e così via, con il pessimo risultato di americanizzare la nazionale giapponese per “venderla” meglio, snaturandone le radici nipponiche e mascherandola da statunitense. Taro Misaki? No è Tom Becker!
Nonostante tutto il preambolo sono indissolubilmente legato alla serie animata, perché “Holly & Benji” sa di merenda della nonna in quei pomeriggi magici e interminabili passati davanti a Italia 1, di ginocchia sbucciate dopo intere giornate a inseguire un pallone, di ricordi preziosi che rievocano quell’attitudine da spensierato sognatore che si finisce un po’ col perdere con l’età adulta.
Era da diverso tempo che desideravo rituffarmi nei prati verdi della nostalgia e quale migliore occasione del mondiale in Qatar per immergersi nuovamente nelle pagine di Yōichi Takahashi?

Tsubasa Ozora è un vivace bambino innamorato del pallone.
Quando un giorno finisce sotto un camion è proprio la sua amata palla da calcio a salvarlo, attutendo il colpo facendogli da cuscino.
Da quel momento il predestinato Tsubasa capisce che il calcio è la sua ragione di vita, e parte la sua scalata verso la carriera professionistica dalla scuola elementare Nankatsu, dove conosce il suo primo vero antagonista: l’insuperabile portiere Genzo Wakabayashi, superstar assoluta di una scuola rivale e ben presto avversario sul campo. A completare la rosa della Nankatsu arriva il talentuoso Taro Misaki, la cui intesa con Tsubasa dà origine alla “coppia d’oro” della Nankatsu prima, e del Giappone poi. Sotto i preziosi insegnamenti del fuoriclasse brasiliano Roberto Hongo, Tsubasa cresce con un sogno raggiante nel cuore: portare il Giappone a vincere la prestigiosa coppa del mondo.

L’incipit è quanto di più semplice possibile, e non è certo il plot narrativo ad aver consegnato l’opera agli annali.
Ciò che ha trasformato “Captain Tsubasa” in leggenda è stata la sua inimitabile iconografia: il calcio acrobatico dei fratelli Tachibana (i gemelli Derrick) e la loro iconica catapulta infernale, l’indimenticabile tiro della tigre di Kojiro Hyuga che buca la rete, le assurde parate da karateka di Wakashimazu (Ed Warner) che si dà slancio con i piedi su un palo per andare a intervenire sul palo opposto, e tutta una serie di incredibili esagerazioni e assurdità che aprivano nuove possibilità agli spokon.

Prima di “Capitan Tsubasa” (1981) un manga incentrato sul calcio lo avevamo visto solo grazie al leggendario Ikki Kajiwara con “Arrivano i Superboys” (1968).
Kajiwara è a detta di molti il motivo per cui Tezuka non si è mai cimentato in un manga sportivo, in ambito spokon il confronto con Kajiwara sarebbe stato impietoso per chiunque, anche per il “Dio dei manga”.
La semantica di Takahashi differisce in toto da quella di Kajiwara, e salta immediatamente all’occhio dalla caratterizzazione di Tsubasa.
Ozora è un ragazzo di buona famiglia, puro e genuino, che incarna una serie di valori positivi come l’amicizia e la lealtà lontanissimi dagli stereotipi del papà di “Rocky Joe”, che inseriva i suoi personaggi all’interno di contesti drammatici e di estrema povertà rendendo i suoi protagonisti veri e propri vessilli di ribellione e rivalsa sociale.
Takahashi invertì le tendenze, in “Capitan Tsubasa” l’emarginato in cerca di riscatto non è il protagonista ma Kojiro Hyuga, da noi l’arcinoto Mark Lenders, inizialmente “villain” e nemesi del nostro Tsubasa, orfano e “costretto” a giocare a calcio per mantenere la famiglia con quella fame che diventa indomabile ferocia agonistica ereditiera del Joe Yabuki kajiwariano, anche se poi i due si troveranno a collaborare formando un inarrestabile tandem offensivo nella nazionale giapponese.
Questo approccio rivoluzionario agli antipodi rese “Capitan Tsubasa” non una semplice e valida alternativa agli spokon di Kajiwara, ma un vero e proprio nuovo punto di partenza, che avrebbe fatto da testa d’ariete ad opere come “Eyeshield 21” e “Blue Lock”.

All’epoca il calcio nel Sol Levante era uno sport praticato pochissimo, non vi era una lega nazionale né squadre professionistiche, e al tempo della prima pubblicazione del manga il Giappone non era mai riuscito a qualificarsi ai mondiali di calcio.
Non è un caso che, 17 anni dopo, grazie ad una generazione cresciuta a pane e “Captain Tsubasa”, tra le cui file spiccava il talentuoso Hidetoshi Nakata, “I Samurai” riuscirono a strappare il loro primo ticket mondiale per Francia 1998.
Yōichi Takahashi diede un contributo fondamentale alla crescita del movimento calcistico giapponese regalando un sogno a milioni di ragazzi, probabilmente senza il suo manga il Giappone non avrebbe oggi lo status di maggiore rappresentante calcistica asiatica, e questo la dice lunga sull’impatto sociale e la rilevanza storica dell’opera.

Se l’anime spesso si perde in lungaggini, con i campi da calcio chilometrici che sembrano infiniti e le partite allungate e “appesantite” dalle stesse animazioni ripetute a oltranza, il manga presenta un ritmo molto più incalzante e veloce, facendo della vivacità dei match uno dei suoi punti di forza.
Il tratto morbido di Takahashi dona alle tavole il dinamismo giusto, e pur mostrandosi inizialmente un po’ acerbo migliora sensibilmente in corso d’opera, fino a stabilizzarsi su ottimi standard, mostrando anche una grande predisposizione per la colorazione ad acquerello.
Buona la gestione dei personaggi principali, che pur non sfoggiando certo tridimensionalità caratteriali urasawiane godono di discreto approfondimento, sopratutto considerato il vasto roster.

Pur sorvolando sulle enfatizzazioni (per usare un eufemismo) come il tifo sugli spalti per tornei interscolastici che neanche al Santiago Bernabeu, l’opera presenta dei problemi piuttosto evidenti, e non sono tanto le incredibili tecniche di tiro a rompere la sospensione dell’incredulità (quello è un compromesso accettabile dato che un manga simulativo su uno sport snobbato come il calcio in Giappone non lo avrebbe letto nessuno) quanto invece alcune evitabili leggerezze e/o incongruenze narrative.
Ad esempio l’arbitro costringe Tsubasa a uscire dal campo per una lussazione alla spalla mentre invece Misugi, notoriamente cardiopatico, viene lasciato stramazzare a terra in preda ad un attacco di cuore senza che il direttore di gara intervenga. A proposito di arbitraggio la gestione di Takahashi non è stata proprio ottimale.
I direttori di gara risultano fin troppo permissivi, concedendo ai giocatori interventi che neanche in un ring di MMA, senza quasi mai fischiare né tantomeno tirare fuori un cartellino. Evidentemente qualcuno ha fatto notare il fatto a Takahashi che ha impropriamente deciso di recuperare tutto il non fischiato in una singola partita: la semifinale del campionato mondiale juniores tra Giappone e Francia, dove tra espulsioni e goal annullati succede davvero di tutto, roba che al confronto Italia - Corea del sud dei mondiali 2002 arbitrata da Moreno è una barzelletta.
Il vero tallone d’Achille dell’opera però è senza dubbio la parte extra calcistica.
Il fumetto di Takahashi è letteralmente monopolizzato dal calcio, le sottotrame slice of life si limitano a mostrarci le varie manager innamorate dei rispettivi top player di turno intente a conquistarli senza quasi mai venire ricambiate, tramite siparietti che non restano certo impressi per originalità o lirismo. È scontato quindi che se siete immuni all’effetto nostalgia e indifferenti al calcio non troverete in “Capitan Tsubasa” la vostra tazza di tè.

Attenzione: questa parte contiene spoiler!

Le partite coinvolgono e risultano avvincenti tuttavia il lettore non si troverà mai sorpreso dall’esito di un match: la squadra di Tsubasa non perde mai una singola partita e questo permea l’opera di una certa prevedibilità. La squadra di Holly sta perdendo 4-0 ed Holly accorcia le distanze siglando il 4-1? Sicuro come la morte che la rimonta andrà a buon fine.
In “Capitan Tusbasa” manca totalmente un punto cardine degli spokon fino a quel momento: il miglioramento e la maturazione attraverso la sconfitta.
Considerato anche che le finali delle varie competizioni sono scontate, e praticamente “annunciate” già dalla cerimonia d’apertura, nella parte centrale subentra un po’ di stanca.
Fortunatamente l’opera si conclude con il botto, grazie all’introduzione delle nazionali e lo spettacolare mondiale juniores in Francia, dove assistiamo all’apoteosi del calcio takashiano.

Fine parte contenente spoiler

Un ventunenne Yōichi Takahashi, folgorato dal mondiale ‘78 in Argentina e dalle gesta di Kempes (è proprio sulle caratteristiche tecniche di Mario Kempes che infatti l’autore costruirà il personaggio di Tsubasa), realizza un one-shot sul calcio con la passione di un ragazzino che fantastica su un futuro sportivamente diverso per il suo paese… il resto è storia.
Seppure influenzato dai grandi calciatori nell’ideare i suoi giocatori, tra cui risalta l’ispirazione a Diego Armando Maradona per il personaggio di Juan Diaz e quella a Karl-Heinz Rummenigge per Karl-Heinz Schneider, Takahashi concepisce un’opera immaginifica eternamente sospesa nella fantasia fanciullesca, che tra tiri infuocati e sforbiciate incrociate a poco da spartire con il football giocato.
“Holly & Benji” è il calcio come lo si sogna da bambini, e certi sogni, si sa, non invecchiano mai…