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7.5/10
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«Vi siete giocati un topo alla morra cinese?!»

«Sai perché?! Perché non aveva alcun senso dividere un topo in dieci… prima o poi saremmo tutti morti. Perciò tanto valeva lasciare quel topo a uno solo di noi… meglio un solo sopravvissuto che dieci morti… era questa la semplicissima regola che avevano pensato quei ragazzi!»

Gli anni ‘90 raccoglievano un importante retaggio lasciato i decenni prima dai gangster movies.
Le leggendarie performance recitative di De Niro e Al Pacino entrarono velocemente nella memoria collettiva, dando un fondamentale contributo alla risonanza mediatica del genere.
“Il Padrino” di Francis Ford Coppola fece da apripista a tutto un filone che vide i suoi maggiori esponenti in “Scarface” e “Gli Intoccabili” di Bryan De Palma, e “C’era una volta in America” del compianto Sergio Leone, prima ancora della dirompente esplosione di Martin Scorsese nel genere (a cui si era già affacciato nel 1973 con “Mean Streets”) avvenuta nel 1990 con l’iconico “Goodfellas”, da noi noto come “Quei Bravi Ragazzi”.
Proprio nel 1990 Yoshiyuki Okamura, qui con lo pseudonimo di Sho Fumimura, in Italia famoso come Buronson (lo sceneggiatore di “Ken il guerriero”), prestava la sua penna all’arte pittorica di Ryoichi Ikegami per il concepimento di “Sanctuary”, un caposaldo degli “yakuza manga”.

“Sanctuary” è la storia di Akira Hojo e Chiaki Asami, due giapponesi legati a doppio filo da un passato nefasto: i due sono cresciuti in Cambogia e sopravvissuti alle carneficine di Pol Pot, uno dei dittatori più spietati e violenti che la storia ricordi. Al loro ritorno in Giappone i ragazzi trovano un paese statico e conservativo, nonostante il grande sviluppo industriale ed economico.
Decidono che è tempo di rivoluzionare e svecchiare una nazione troppo chiusa in se stessa per aprirsi ai nuovi orizzonti che il futuro prospetta.
Così, tramite una partita a morra cinese, come ai tempi della Cambogia, stabiliscono i rispettivi ruoli: ad Hojo tocca la via dell’ombra, diventerà infatti uno yakuza, mentre ad Asami la via della luce, diventerà un politico. Due vie parallele che puntano a confluire in un unico grande obiettivo: Il Santuario, luogo immaginifico e metaforico che rappresenta il vertice del potere.

“Il vecchio muore al posto di chi sta per nascere”

Combattere la gerontocrazia attraverso una coalizione segreta è il primo passo per scollare dalle poltrone i cariatidi che le occupano indebitamente da decadi, e questo Hojo ed Asami lo sanno fin troppo bene. La contiguità tra mafia e politica ci viene mostrata esplicitamente e con dovizia di particolari, tra giochi di potere, tradimenti e corruzione senza scrupoli, immergendoci in un melting pot a metà tra l’hard boiled classico e il politico romanzato.
Ci sono diversi richiami a pellicole celebri di stampo gangster, tra cui spicca quello all’attentato a Don Vito Corleone nel primo Padrino magnificamente interpretato da Marlon Brando. Una scena inoltre ricorda molto da vicino l’epico finale del successivo “Gran Torino”, che il regista californiano si sia ispirato a “Sanctuary”?
Ai posteri l’ardua sentenza.
Tra i tanti punti in comune con i masterpiece cinematografici del genere, troviamo anche una differenza piuttosto sostanziale; “Sanctuary” non tratta di droga (d’altronde la yakuza è diversa dalla nostra mafia), e a differenza dei film sulla mafia nostrana, che del narcotraffico e del rispettivo controllo delle piazze di spaccio fanno spesso il loro focus, Fumimura preferisce concentrarsi maggiormente sul tessuto sociale e sugli intrighi politici, sviscerando l’amministrazione e l’economia di un paese che, ormai guarito dalle cicatrici belliche, si appresta a rinascere nuovamente fulgido di nuova luce.

Tra i numerosissimi personaggi, così tanti da generare talvolta confusione, fra le le file degli Yakuza spicca Tokai, un impavido e fumantino donnaiolo completamente dedito a Hojo, accostabile a quella che in futuro diverrà la caratterizzazione del Joe Pesci scorsesiano, il suo essere istrionicamente sopra le righe lo rende protagonista indiscusso delle scene più grottesche del manga.
Nel lato dei politici invece emerge il vecchio atavico Isaoka, il personaggio più stratificato e interessante dell’opera, capace di architettare machiavelliche trame pur di preservare la sua posizione di rilievo nell’economia del Giappone.
La gestione delle donne risulta discutibile, ridotte a meri strumenti sessuali senza spina dorsale.
La seducente Kyoko Ishihara, commissario che poteva rappresentare l’eccezione allo stereotipo datoci, dopo l’opposizione iniziale finisce con l’innamorarsi di Hojo piegandosi completamente al volere di quest’ultimo, finendo per rinnegare i suoi ideali in favore di un’accondiscendenza totalitaria che le fa perdere piano piano quell’interessante austerità iniziale, scadendo nella deferenza più assoluta.

Il ritmo narrativo è incalzante.
Il nozionismo didascalico relativo alle questioni politiche risulta ben ponderato, onde evitare di appesantire una lettura che si mantiene fluente per tutta la sua durata.
La ripetitività di alcuni espedienti narrativi invece, permea l’opera di una prevedibilità a tratti evitabile.
Ad esempio, nonostante sia risaputo che gli yakuza utilizzino stratagemmi come imbottiture e fasciature antiproiettili, assistiamo più volte a mancate esecuzioni a causa di colpi sparati inspiegabilmente sul busto invece che sul volto, il che, alla lunga, rischia di rompere la sospensione dell’incredulità.

“Sanctuary” è l’epifania del sodalizio Buronson-Ikegami, che successivamente diventerà un autentico tandem consolidato (“Odissey”, “Strain”, “Heat”, “Lord”).
La sopraffina mano di Ikegami dona all’opera il miglior confezionamento possibile, grazie ad un tratto raffinato che in termini di resa visiva non teme confronti.
Il chara è realistico e funzionale al tipo di storia narrata; Hojo è il classico belloccio dandy alla Ryo Saeba (il nome infatti richiama l’autore di “City Hunter” Tsukasa Hojo), mentre l’occhialuto e distinto Asami ha il physique du role di Clark Kent.
Da segnalare le conturbanti scene di nudo che sfoggiano statuari fisici femminili e bellezze veneree d’altri tempi.
Nelle fasi d’azione più concitate però, non sempre le tavole esprimono il dinamismo giusto, risultando talvolta un po’ statiche.
Ad ogni modo il disegno di Ikegami innalza decisamente il valore complessivo dell’opera, toccando il suo zenit proprio nelle scene erotiche.
Merita un plauso la nuova edizione Star Comics, che accorpa 2 tankobōn in un elegante volume con sovraccopertina nera e rilievi dorati.

Gli argomenti trattati e le numerose scene di sesso fanno di “Sanctuary” un seinen consigliabile perlopiù ad un publico maturo e consapevole della lettura che si appresta a svolgere.
L’ascesa di Hojo e Asami è la scalata dagli inferi della Cambogia al paradiso del successo, un incubo che si trasforma in un sogno, un sogno che si trasforma in obiettivo concreto a cui anelare con l’ambizione di chi sa, che un giorno, si prenderà tutto quello che gli spetta.
Il santuario bramato è la confluenza tra bene e male in un nebuloso limbo dove l’obiettivo finale è l’unica cosa che conta: erudire gli yakuza e renderli una categoria rispettata e orgogliosa che non deve più vergognarsi dell’etichette affibbiategli.
Una corsa sfrenata verso il nobile traguardo, lungo una via lastricata di sangue che conduce ad un catartico e poetico finale alla “Rocky Joe”.

«Perché sei diventato uno Yakuza?»

«Perché posso fare in un giorno quello che una persona normale fa in 10 anni”