Recensione
Hitler
6.5/10
Recensione di DarkSoulRead
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Shigeru Mizuki è stato un reduce di guerra; arruolato nell'esercito imperiale giapponese durante la seconda guerra mondiale, l’autore visse a pieno l’orrore bellico sul campo di battaglia: assistette alle brutali morti di molti dei suoi compagni e perse il braccio sinistro in seguito ad un’esplosione scaturita da un attacco aereo. Da mancino dovette reinventarsi destrorso, imparando nuovamente a scrivere e successivamente a disegnare con la mano destra. Noto come il padre degli yōkai, Mizuki è ricordato sopratutto grazie al suo celebre “Kitaro dei cimiteri”, personaggio divenuto leggendario nel folklore giapponese, e “Nonnonbâ”, favola orrorifica di matrice autobiografica. I mostri rappresentati dall’autore non sono altro che estensioni estremizzate e parossistiche dell’essere umano, e diventano metafora della popolazione giapponese che, ferita profondamente da Hiroshima e Nagasaki, grida vendetta trasformandosi in un demonio ebbro di rabbia, spalancando fauci insanguinate pronte ad ingoiare tutto il genere umano in un feroce morso d’odio. Come poteva dunque, Adolf Hitler, il demone umano per antonomasia, non passare sotto il vaglio di Shigeru Mizuki?
In “Hitler” Mizuki mette volontariamente a lato gli orrori della guerra, concentrandosi maggiormente sugli aspetti politici e socioculturali di una nazione sfregiata nell'orgoglio dopo il primo conflitto mondiale, pronta a rinascere sotto la guida di un demagogo dalle capacità oratorie e persuasive senza precedenti.
“Io sono un artista e non un politico”.
L’Hitler mizukiano appare collerico e schizoide, ma anche e sopratutto dannatamente umano, tanto che nella sua folle parabola discendente che lo porterà al suicidio instillerà più volte compassione nel lettore.
L’amore morboso e smisurato che nutre nei confronti della nipote Geli, figlia di sua sorella, è un qualcosa che in un certo senso umanizza il demonio più maligno del ventesimo secolo, ponendolo in una dimensione differente rispetto alle caricature di malvagità estrema a cui eravamo stati abituati. Lo spietato Führer era un uomo che si nutriva di sogni, subiva il fascino dell’arte, della musica, aveva la passione per i dipinti e per l’architettura, ma le sue aspirazioni di artista furono distrutte dalle due bocciature all’esame d’ammissione all’Accademia delle Belle Arti di Vienna.
“Il sogno di trasformare la Germania, anzi l’Europa intera, in un’opera nuova, in una creazione che sarebbe stata solo sua. Una creazione che avrebbe plasmato con uno strumento chiamato forza”.
La prima cosa che a chiunque viene in mente quando si parla di nazismo è l’olocausto; sorprendentemente la persecuzione perpetrata dai tedeschi al popolo ebraico è un aspetto che Mizuki preferisce tener da parte, accennandone appena con alcune sporadiche sequenze che evidenziano l’antisemitismo del Führer, ma i campi di concentramento di Auschwitz e gli stermini lì compiuti restano totalmente avulsi al volume.
Scelta sicuramente discutibile dato il didascalico e minuzioso nozionismo storico con cui il mangaka approccia l’opera, cronistoria che fa si che il lettore attenda tutto il tempo un momento che non arriva mai, rimanendo inevitabilmente deluso dall’orrore celato.
L’approccio anticonvenzionale di Mizuki rende “Hitler” un’opera sui generis, indubbiamente spiazzante alla prima lettura, che non anela a sensibilizzare il lettore né tantomeno a sconvolgerlo emotivamente, come di prassi fanno le opere trattanti il medesimo contesto storico. Sia chiaro il manga non vuole essere affatto l’apologia di Hitler, ma la fascinazione che il Mizuki bambino provava verso il Führer emerge chiaramente sin dalle prime pagine. “Hitler” è in primis la storia di un uomo, con evidenti debolezze e grandi aspirazioni, e quella consegnataci dall’autore è l’immagine di un condottiero carismatico e trascinante, l’immagine che durante l’ascesa tedesca tutto il mondo (o quasi) aveva, prima che venisse fornita la definitiva fotografia demoniaca con cui oggi tutti i libri di storia lo ritraggono. Dopotutto non va dimenticato che Hitler è stato eletto al potere democraticamente, e sono proprio le critiche alle falle del sistema democratico uno dei punti chiave del sottotesto mizukiano.
I personaggi storici sono numerosissimi, perfino troppi per lasciare il segno in un sovraccarico di personalità che disorienta e confonde, appesantendo sovente la lettura. Impossibile non citare Mussolini, buffo e grottesco, Mizuki gli dona una caratterizzazione simile a quella vista nell’ultimo “Pinocchio” di Guillermo del Toro, per intenderci, palesando la ridicola considerazione che il mondo ha del duce.
Molte le reference a Napoleone, d’altronde per Hitler il generale francese è stato uno dei massimi riferimenti, una delle figure a cui si è maggiormente ispirato lungo la sua scalata al potere, che diventa metro di paragone nei suoi continui deliri di megalomania.
“Io valgo molto più di Napoleone.
Io sono protetto da Dio!”
Il tratto di Shigeru Mizuki è classico, e strizza l’occhio alla tradizione stilistica manga anni ‘70, di cui lui è antesignano.
Agli sfondi, cupi e fotorealistici (molti presi da fotografie dell’epoca) fanno da contrasto personaggi contraddistinti da un tratto sintetico e caricaturale, quasi cartoonesco, che, con pochissime linee, conferisce loro la massima espressività. Vedere Hitler con la fronte aggrottata imperlata di sudore mentre si deforma nelle sua caratteristiche ed istrioniche espressioni facciali è un qualcosa che da solo vale il prezzo del biglietto.
Il mangaka si cimenta in una contestualizzazione storica certosina, denotativa di un’abilità narrativa che non si limita a racconti folkloristici e di fantasia, come dimostrerà ampiamente anche in seguito con “Verso una nobile morte” e “Showa: Una storia del Giappone”.
Tuttavia da un reduce di guerra era auspicabile un’opera più cruda, “Gekiga Hitler” non è un manga di denuncia, ma una biografia didascalica disegnata da un ex soldato giapponese che ci conferisce un ritratto attraverso “occhi non velati d’odio”, mostrandoci, per alcuni versi, anche nuovi piani prospettici dell’uomo più tristemente noto di tutti i tempi.
Dai primi dipinti al vagabondaggio, dai sogni alle bramosie di conquista, dall’arruolamento militare nell’esercito tedesco, dove si distinguerà per le sue eccezionali doti belliche, fino all’imposizione sull’insipienza politica dell’epoca; la storia di un uomo che ha risollevato una nazione per far poi sprofondare il mondo intero nel terrore più puro.
In “Hitler” Mizuki mette volontariamente a lato gli orrori della guerra, concentrandosi maggiormente sugli aspetti politici e socioculturali di una nazione sfregiata nell'orgoglio dopo il primo conflitto mondiale, pronta a rinascere sotto la guida di un demagogo dalle capacità oratorie e persuasive senza precedenti.
“Io sono un artista e non un politico”.
L’Hitler mizukiano appare collerico e schizoide, ma anche e sopratutto dannatamente umano, tanto che nella sua folle parabola discendente che lo porterà al suicidio instillerà più volte compassione nel lettore.
L’amore morboso e smisurato che nutre nei confronti della nipote Geli, figlia di sua sorella, è un qualcosa che in un certo senso umanizza il demonio più maligno del ventesimo secolo, ponendolo in una dimensione differente rispetto alle caricature di malvagità estrema a cui eravamo stati abituati. Lo spietato Führer era un uomo che si nutriva di sogni, subiva il fascino dell’arte, della musica, aveva la passione per i dipinti e per l’architettura, ma le sue aspirazioni di artista furono distrutte dalle due bocciature all’esame d’ammissione all’Accademia delle Belle Arti di Vienna.
“Il sogno di trasformare la Germania, anzi l’Europa intera, in un’opera nuova, in una creazione che sarebbe stata solo sua. Una creazione che avrebbe plasmato con uno strumento chiamato forza”.
La prima cosa che a chiunque viene in mente quando si parla di nazismo è l’olocausto; sorprendentemente la persecuzione perpetrata dai tedeschi al popolo ebraico è un aspetto che Mizuki preferisce tener da parte, accennandone appena con alcune sporadiche sequenze che evidenziano l’antisemitismo del Führer, ma i campi di concentramento di Auschwitz e gli stermini lì compiuti restano totalmente avulsi al volume.
Scelta sicuramente discutibile dato il didascalico e minuzioso nozionismo storico con cui il mangaka approccia l’opera, cronistoria che fa si che il lettore attenda tutto il tempo un momento che non arriva mai, rimanendo inevitabilmente deluso dall’orrore celato.
L’approccio anticonvenzionale di Mizuki rende “Hitler” un’opera sui generis, indubbiamente spiazzante alla prima lettura, che non anela a sensibilizzare il lettore né tantomeno a sconvolgerlo emotivamente, come di prassi fanno le opere trattanti il medesimo contesto storico. Sia chiaro il manga non vuole essere affatto l’apologia di Hitler, ma la fascinazione che il Mizuki bambino provava verso il Führer emerge chiaramente sin dalle prime pagine. “Hitler” è in primis la storia di un uomo, con evidenti debolezze e grandi aspirazioni, e quella consegnataci dall’autore è l’immagine di un condottiero carismatico e trascinante, l’immagine che durante l’ascesa tedesca tutto il mondo (o quasi) aveva, prima che venisse fornita la definitiva fotografia demoniaca con cui oggi tutti i libri di storia lo ritraggono. Dopotutto non va dimenticato che Hitler è stato eletto al potere democraticamente, e sono proprio le critiche alle falle del sistema democratico uno dei punti chiave del sottotesto mizukiano.
I personaggi storici sono numerosissimi, perfino troppi per lasciare il segno in un sovraccarico di personalità che disorienta e confonde, appesantendo sovente la lettura. Impossibile non citare Mussolini, buffo e grottesco, Mizuki gli dona una caratterizzazione simile a quella vista nell’ultimo “Pinocchio” di Guillermo del Toro, per intenderci, palesando la ridicola considerazione che il mondo ha del duce.
Molte le reference a Napoleone, d’altronde per Hitler il generale francese è stato uno dei massimi riferimenti, una delle figure a cui si è maggiormente ispirato lungo la sua scalata al potere, che diventa metro di paragone nei suoi continui deliri di megalomania.
“Io valgo molto più di Napoleone.
Io sono protetto da Dio!”
Il tratto di Shigeru Mizuki è classico, e strizza l’occhio alla tradizione stilistica manga anni ‘70, di cui lui è antesignano.
Agli sfondi, cupi e fotorealistici (molti presi da fotografie dell’epoca) fanno da contrasto personaggi contraddistinti da un tratto sintetico e caricaturale, quasi cartoonesco, che, con pochissime linee, conferisce loro la massima espressività. Vedere Hitler con la fronte aggrottata imperlata di sudore mentre si deforma nelle sua caratteristiche ed istrioniche espressioni facciali è un qualcosa che da solo vale il prezzo del biglietto.
Il mangaka si cimenta in una contestualizzazione storica certosina, denotativa di un’abilità narrativa che non si limita a racconti folkloristici e di fantasia, come dimostrerà ampiamente anche in seguito con “Verso una nobile morte” e “Showa: Una storia del Giappone”.
Tuttavia da un reduce di guerra era auspicabile un’opera più cruda, “Gekiga Hitler” non è un manga di denuncia, ma una biografia didascalica disegnata da un ex soldato giapponese che ci conferisce un ritratto attraverso “occhi non velati d’odio”, mostrandoci, per alcuni versi, anche nuovi piani prospettici dell’uomo più tristemente noto di tutti i tempi.
Dai primi dipinti al vagabondaggio, dai sogni alle bramosie di conquista, dall’arruolamento militare nell’esercito tedesco, dove si distinguerà per le sue eccezionali doti belliche, fino all’imposizione sull’insipienza politica dell’epoca; la storia di un uomo che ha risollevato una nazione per far poi sprofondare il mondo intero nel terrore più puro.