Recensione
Gannibal
8.5/10
Recensione di DarkSoulRead
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”L’uomo apparve sulla terra 200.000 anni fa. Per i nostri antenati… il cannibalismo era una pratica comune. Per motivi religiosi, come rimedio sciamanico o solo perché si aveva voglia di carne. Veniva praticato per svariati motivi in tutto il mondo e anche in Giappone, dove venne proibito ufficialmente durante l’era Meiji. Tuttavia questa pratica potrebbe essere sopravvissuta ancora in certi angoli remoti del globo… e forse anche in alcuni villaggi giapponesi”.
Daigo è un poliziotto che viene affidato in incarico al rurale villaggio di Kuge, dove si trasferisce con moglie e figlia. Daigo e la moglie cercano un po’ di quiete per la bambina, dato che a causa di un tremendo choc ha perso l’uso della parola, e la placidità della cittadina sembra proprio fare al caso loro. La calorosa accoglienza degli abitanti li fa ambientare da subito convincendoli di aver preso la scelta giusta; tuttavia quando trovano a casa incisa nel legno la scritta “scappate” lasciata da Kano, il poliziotto assegnato precedentemente a Kuge, scomparso nel nulla dopo aver dichiarato cannibali gli abitanti del villaggio, capiscono che quel luogo è molto più pericoloso di quello che sembra. Nel frattempo viene trovata morta Gin Goto, matriarca del clan Goto, la famiglia che detiene il potere e il controllo del villaggio; i cittadini dichiarano sia stato un orso a sbranarla, ma i segni dei morsi trovati sul cadavere riconducono a tracce umane.
Masaaki Ninomiya, pseudonimo di Shirou Ninomiya, grazie anche alla ponderata scelta dell’ambientazione, riesce a inscenare un contesto evocativo e claustrofobico carico di mistero giocando a carte scoperte sin da subito.
La classica, apparentemente tranquilla, cittadina di campagna si trasforma presto in un grandguignolesco teatro degli orrori, con vibes orrorifiche opprimenti a metà tra il “Non aprite quella porta” originale e “Il silenzio degli innocenti”, e quell’ostracismo marcato che rievoca “Dogville” di Lars von Trier. Uno sperduto paesino di campagna chiuso nelle sue credenze, nei suoi culti, nelle sue pratiche retrograde e nella sua ignoranza, un villaggio alla “Resident Evil 4” che, tra terribili segreti e labirintiche cospirazioni, diventa un abisso in cui sprofondare.
Il ritmo narrativo, con continui cliffhanger che si susseguono di capitolo in capitolo ricordando le tecniche narrative utilizzate dalle ultime serie tv, incentiva il lettore al binge-reading, sopratutto nella prima metà dell’opera, dove il coinvolgimento aumenta pagina dopo pagina. Se all’inizio il ritmo è incalzante, a tratti persino vorticoso, finisce presto per rallentare in favore di passaggi più ragionati e situazioni ripetute e/o rimandate a qualche volume più avanti, lasciando sottintendere un allungamento della storia in corso d’opera, complice il grande riscontro ottenuto a livello internazionale.
Il tema del cannibalismo, seppur già affrontato da autori underground come i Nishioka Kyodai, a differenza del vampirismo, ancora non è inflazionato dal medium, e risulta esplorabile in lungo e in largo specialmente da una penna abile come quella di Ninomiya, che danza con sorprendente maestria in uno scenario sospeso tra horror e thriller.
Il concetto di famiglia è uno dei focus narrativi; il mangaka lo affronta sia in larga scala, con i Goto, dove la famiglia è un clan portatore di un’usanza segreta; sia più nello specifico nel rapporto genitore-figlio, visto da diverse prospettive, e utile a porci uno dei quesiti insiti nel sottotesto della linea narrativa principale: “fino a che punto è giusto spingersi per proteggere la propria famiglia?”. L’autore condanna l’ignoranza suscettibile alla manipolazione mentale, elargendo diverse stilettate alle religioni, passando dal cristianesimo ai culti pagani. Quella di Kuge è una popolazione che venera un Dio feticcio creato dall’uomo per terrorizzare e mantenere l’equilibrio, un idolo falso nato a scopo di controllo, un mostro che si nutre di bambini, e che tutti chiamano “Lui”. “Lui” è uno dei personaggi chiave, e con Gin Goto, la vera figura centrica dello sviluppo, che riesce ad esercitare i suoi poteri sul villaggio anche da morta, è protagonista di alcuni flashback che toccano i pinnacoli narrativi dell’opera. Il protagonista non è certo un agnello nella tana dei lupi, e presenta un lato oscuro piuttosto interessante; il suo passato violento e il suo carattere bellicoso introducono argomenti come la vendetta e l’abuso di potere che tuttavia potevano essere approfonditi maggiormente.
La regia delle tavole estremamente cinematografica gioca un ruolo fondamentale nella rappresentazione dell’estetica di “Gannibal”. I repentini cambi di scena, l’alternanza dei piani temporali, i cliffhanger episodici, e le numerose inquadrature alla foto di Gin Goto, che danno all’opera quel tocco da film d’essai, permettono al manga di trasformare uno dei suo potenziali punti deboli, quello dell’ambientazione unica, in uno dei suoi punti di forza. Il villaggio, nelle sue tradizioni e nella sua follia, è vivo e ti guarda, sa tutto, dagli orrori del bosco ai passaparola delle case a schiera; grazie anche alla costruzione raffinata di un background corposo, che gli da vibes dark tra “Le colline hanno gli occhi” e “Twin Peaks”, Kuge si rivela una delle migliori ambientazioni horror degli ultimi anni, non solo in ambito manga.
Il tratto moderno ma al contempo sporco e carico di Ninomiya, tra tratteggio deciso e ispirati giochi di chiaroscuro, si rifa a Kazuhiro Fujita stabilizzandosi su ottimi livelli, senza tuttavia raggiungere i picchi espressivi del papà di “Ushio e Tora”. Il mangaka riesce a regalarci memorabili immagini ricche d’orrore e inquietudine, come i primi piani delle macabre risate di Gin Goto, o le tavole di “Lui”, con gli occhi bianchi sbarrati e la bava alla bocca pronto a falcidiare.
Al netto di un annacquamento nella parte centrale, dove il ritmo cala drasticamente rispetto ai fasti iniziali, ed un epilogo piuttosto scontato che si trascina rimandandosi di almeno un paio di volumi,
“Gannibal” è una lettura che si mantiene avvincente per tutta la sua durata. Un’opera malata e coraggiosa, un ritratto cinico, violento e allucinato del primitivo desiderio di carne. Lo spettrale affresco di Masaaki Ninomiya si rivela un piccolo capolavoro dell’alta tensione, in cui più che per l’incolumità del protagonista il lettore teme per i terribili segreti che gli vengono mano a mano rivelati, a cui una volta iniziata la lettura non riuscirà più a sottrarsi, come attratto da una misteriosa ombra dal fascino inquietante. Mentre qualcuno morde il cuore della notte ed esplode in una risata di sangue.
“Questa è la storia di un peccato… di un ragazzo… di una ragazza… e di una misera famiglia. Questa è la storia di una maledizione…quella di un clan tormentato dalla propria eredità… di paesani prigionieri delle proprie radici… e di una famiglia arrivata sulle loro terre”.
Daigo è un poliziotto che viene affidato in incarico al rurale villaggio di Kuge, dove si trasferisce con moglie e figlia. Daigo e la moglie cercano un po’ di quiete per la bambina, dato che a causa di un tremendo choc ha perso l’uso della parola, e la placidità della cittadina sembra proprio fare al caso loro. La calorosa accoglienza degli abitanti li fa ambientare da subito convincendoli di aver preso la scelta giusta; tuttavia quando trovano a casa incisa nel legno la scritta “scappate” lasciata da Kano, il poliziotto assegnato precedentemente a Kuge, scomparso nel nulla dopo aver dichiarato cannibali gli abitanti del villaggio, capiscono che quel luogo è molto più pericoloso di quello che sembra. Nel frattempo viene trovata morta Gin Goto, matriarca del clan Goto, la famiglia che detiene il potere e il controllo del villaggio; i cittadini dichiarano sia stato un orso a sbranarla, ma i segni dei morsi trovati sul cadavere riconducono a tracce umane.
Masaaki Ninomiya, pseudonimo di Shirou Ninomiya, grazie anche alla ponderata scelta dell’ambientazione, riesce a inscenare un contesto evocativo e claustrofobico carico di mistero giocando a carte scoperte sin da subito.
La classica, apparentemente tranquilla, cittadina di campagna si trasforma presto in un grandguignolesco teatro degli orrori, con vibes orrorifiche opprimenti a metà tra il “Non aprite quella porta” originale e “Il silenzio degli innocenti”, e quell’ostracismo marcato che rievoca “Dogville” di Lars von Trier. Uno sperduto paesino di campagna chiuso nelle sue credenze, nei suoi culti, nelle sue pratiche retrograde e nella sua ignoranza, un villaggio alla “Resident Evil 4” che, tra terribili segreti e labirintiche cospirazioni, diventa un abisso in cui sprofondare.
Il ritmo narrativo, con continui cliffhanger che si susseguono di capitolo in capitolo ricordando le tecniche narrative utilizzate dalle ultime serie tv, incentiva il lettore al binge-reading, sopratutto nella prima metà dell’opera, dove il coinvolgimento aumenta pagina dopo pagina. Se all’inizio il ritmo è incalzante, a tratti persino vorticoso, finisce presto per rallentare in favore di passaggi più ragionati e situazioni ripetute e/o rimandate a qualche volume più avanti, lasciando sottintendere un allungamento della storia in corso d’opera, complice il grande riscontro ottenuto a livello internazionale.
Il tema del cannibalismo, seppur già affrontato da autori underground come i Nishioka Kyodai, a differenza del vampirismo, ancora non è inflazionato dal medium, e risulta esplorabile in lungo e in largo specialmente da una penna abile come quella di Ninomiya, che danza con sorprendente maestria in uno scenario sospeso tra horror e thriller.
Il concetto di famiglia è uno dei focus narrativi; il mangaka lo affronta sia in larga scala, con i Goto, dove la famiglia è un clan portatore di un’usanza segreta; sia più nello specifico nel rapporto genitore-figlio, visto da diverse prospettive, e utile a porci uno dei quesiti insiti nel sottotesto della linea narrativa principale: “fino a che punto è giusto spingersi per proteggere la propria famiglia?”. L’autore condanna l’ignoranza suscettibile alla manipolazione mentale, elargendo diverse stilettate alle religioni, passando dal cristianesimo ai culti pagani. Quella di Kuge è una popolazione che venera un Dio feticcio creato dall’uomo per terrorizzare e mantenere l’equilibrio, un idolo falso nato a scopo di controllo, un mostro che si nutre di bambini, e che tutti chiamano “Lui”. “Lui” è uno dei personaggi chiave, e con Gin Goto, la vera figura centrica dello sviluppo, che riesce ad esercitare i suoi poteri sul villaggio anche da morta, è protagonista di alcuni flashback che toccano i pinnacoli narrativi dell’opera. Il protagonista non è certo un agnello nella tana dei lupi, e presenta un lato oscuro piuttosto interessante; il suo passato violento e il suo carattere bellicoso introducono argomenti come la vendetta e l’abuso di potere che tuttavia potevano essere approfonditi maggiormente.
La regia delle tavole estremamente cinematografica gioca un ruolo fondamentale nella rappresentazione dell’estetica di “Gannibal”. I repentini cambi di scena, l’alternanza dei piani temporali, i cliffhanger episodici, e le numerose inquadrature alla foto di Gin Goto, che danno all’opera quel tocco da film d’essai, permettono al manga di trasformare uno dei suo potenziali punti deboli, quello dell’ambientazione unica, in uno dei suoi punti di forza. Il villaggio, nelle sue tradizioni e nella sua follia, è vivo e ti guarda, sa tutto, dagli orrori del bosco ai passaparola delle case a schiera; grazie anche alla costruzione raffinata di un background corposo, che gli da vibes dark tra “Le colline hanno gli occhi” e “Twin Peaks”, Kuge si rivela una delle migliori ambientazioni horror degli ultimi anni, non solo in ambito manga.
Il tratto moderno ma al contempo sporco e carico di Ninomiya, tra tratteggio deciso e ispirati giochi di chiaroscuro, si rifa a Kazuhiro Fujita stabilizzandosi su ottimi livelli, senza tuttavia raggiungere i picchi espressivi del papà di “Ushio e Tora”. Il mangaka riesce a regalarci memorabili immagini ricche d’orrore e inquietudine, come i primi piani delle macabre risate di Gin Goto, o le tavole di “Lui”, con gli occhi bianchi sbarrati e la bava alla bocca pronto a falcidiare.
Al netto di un annacquamento nella parte centrale, dove il ritmo cala drasticamente rispetto ai fasti iniziali, ed un epilogo piuttosto scontato che si trascina rimandandosi di almeno un paio di volumi,
“Gannibal” è una lettura che si mantiene avvincente per tutta la sua durata. Un’opera malata e coraggiosa, un ritratto cinico, violento e allucinato del primitivo desiderio di carne. Lo spettrale affresco di Masaaki Ninomiya si rivela un piccolo capolavoro dell’alta tensione, in cui più che per l’incolumità del protagonista il lettore teme per i terribili segreti che gli vengono mano a mano rivelati, a cui una volta iniziata la lettura non riuscirà più a sottrarsi, come attratto da una misteriosa ombra dal fascino inquietante. Mentre qualcuno morde il cuore della notte ed esplode in una risata di sangue.
“Questa è la storia di un peccato… di un ragazzo… di una ragazza… e di una misera famiglia. Questa è la storia di una maledizione…quella di un clan tormentato dalla propria eredità… di paesani prigionieri delle proprie radici… e di una famiglia arrivata sulle loro terre”.