Recensione
Samurai Champloo
9.0/10
“Devi smetterla di vivere trovando continuamente delle scuse, sei tu a decidere della tua vita".
Sei anni dopo aver fatto dono al mondo intero di quel capolavoro senza tempo che è “Cowboy Bebop”, Shin'ichirō Watanabe torna alla regia, in collaborazione con l’ormai defunto studio d’animazione Manglobe, di un’opera inedita a soggetto originale, che avrebbe poi ispirato un manga di scarso successo, “Samurai Champloo”. Dalla parola del dialetto di Okinawa "chanpurū", che vuol dire mischiare o fondere, “Samurai Champloo” si propone allo spettatore come anime composto quasi interamente da puntate autoconclusive, proprio come il precedente “Cowboy Bebop”, i cui protagonisti, Mugen e Jin, sono come lo ying e lo yang, al centro di una dicotomia perfetta spezzata dalla presenza femminile necessaria ed essenziale della giovane Fuu.
La storia è ambientata in Giappone, in un immaginario periodo Edo, che copre il periodo storico che va dal 1603 al 1868. In quest’epoca ancora fortemente connotata dalla presenza di samurai, troviamo i nostri grandi protagonisti: Mugen, un rozzo e trasandato guerriero vagabondo che viene dalle isole Ryūkyū, il cui stile di combattimento richiama l’anacronistica break dance afroamericana e ha motivi di somiglianza con la capoeira; Jin, un calmo e misterioso ronin, che combatte utilizzando il tipico stile kenjutsu dei samurai. Questi due feroci spadaccini incrociano le strade tra loro e con Fuu, una giovane cameriera di appena quindici anni, che li salva dalla loro esecuzione quando i due vengono arrestati dopo aver preso parte ad un violento scontro. Fuu convince i due giovani viandanti ad aiutarla a trovare il misterioso "samurai che profuma di girasoli" e, così, la loro lunga e mitica epopea verso una meta dai connotati indistinti ha inizio.
L’essenza dell’opera diretta da Watanabe risiede tutta in una sola parola, Champloo, intesa appunto col significato di mischiare. “Samurai Champloo” è la grande fusione di elementi che sembrano appartenere a poli opposti e intangibili, ma che, nell’arco delle ventisei puntate, diventano un tutt’uno fitto e inseparabile. All’ambientazione perfettamente in linea con il periodo che fa da sfondo alle vicende dei protagonisti, ovvero il Periodo Edo, fanno da contraltare alcuni elementi fortemente anacronistici per l’epoca, tanto da suscitare lo sdegno di alcuni spettatori. Su tutti, sicuramente, la forte presenza di musica di chiaro stampo hip-hop. Fat Jon, Nujabes, Tsutchie e Force of Nature formano una squadra di prim’ordine, che con le loro melodie contemporanee riescono a coinvolgere pienamente lo spettatore, consapevole di star assistendo alla fusione di due mondi che non c’entrano niente l’uno con l’altro, ma che stanno terribilmente bene insieme. Ed è proprio il comparto musicale, impreziosito dalla voce dolce e carezzevole di MINMI, a rappresentare uno dei grandi punti di forza dell’intera opera, senza il quale “Samurai Champloo” non sarebbe potuto esistere nella sua magnificenza. Onestamente, è stata proprio la presenza di musiche così belle ed evocative a spingermi verso una valutazione così alta dell’anime, a riprova del fatto che un ottimo, in questo caso eccezionale, comparto musicale può cambiare le sorti di qualsiasi opera. “Samurai Champloo” è anche la fusione di ordine e pazzia, perché se è vero che la serie segue un filo rosso abbastanza distinguibile, ci sono alcuni episodi, in particolar modo il 22 e il 23, in cui sembra ed effettivamente va a farsi benedire ogni senso logico. Ed è incredibile come, anche in questo caso, l’elemento follia si sposi bene con quello ordinario, a maggior ragione quando il primo si colloca agli sgoccioli della serie, poco prima dell’incerto finale, come a voler dare il tempo allo spettatore di prendere un bel respiro prima di immergersi verso l’atteso epilogo.
Ma nulla di quanto esaminato fino ad ora incarna meglio l’idea della fusione, della mescolanza, come i tre protagonisti. Mugen è un impulsivo, uno che agisce senza pensarci due volte. Quando il pericolo chiama lui risponde sempre presente. Ha profondamente in odio l’autorità, per questo motivo non ci sarebbe nessun problema nel definirlo un anarchico. In un passato non troppo lontano, Mugen è stato tradito da un amico, per questo non sembra fidarsi di nessuno, se non di sé stesso e della spada che porta sempre con sé. In realtà, poco altro si sa del suo passato, quasi completamente avvolto dalle tenebre, e questo discorso vale anche per gli altri due protagonisti, in particolar modo per l’occhialuto samurai. A differenza di Mugen, Jin è un tipo metodico, attento, dal sangue freddo, che conta sempre fino a dieci prima di agire. Da buon samurai, Jin è dotato di grande orgoglio e di un cuore buono e gentile, tanto da prendersi a cuore le sorti di una ragazza costretta a vendere il proprio corpo per ripagare i debiti del marito. Jin è accusato di aver ucciso il maestro del dojo a cui apparteneva e, per questo motivo, deve affrontare l’ira dei suoi discepoli. Anche lui, come Mugen, ha come migliori amiche le due spade da cui non si separa mai. Infine, c’è la dolce e gentile Fuu, un’ex cameriera che viaggia sempre in compagnia di Momo, il suo simpatico scoiattolo volante. La ragazza è chiamata a fare da balia a questi due samurai così diversi tra di loro e che, sin dal primo episodio, si promettono rivalità eterna. In realtà, è proprio Fuu a coinvolgere i due ragazzi nella ricerca del leggendario “samurai che profuma di girasoli”, sulla cui identità si sa ben poco, se non che, come suggerisce il nome, profuma di girasoli. Proprio il nome del samurai rivela molto sulla natura del viaggio che il trio sta compiendo, perché, come molti certamente sapranno, in realtà, i girasoli non profumano per niente. L’ossimorico nome del samurai rende quanto mai incerto il viaggio, alla cui meta potrebbe non esserci nulla o, comunque, ciò che non ci si aspettava di trovare. E, in fondo, è proprio questo il punto. “Samurai Champloo” incarna alla perfezione il detto “non è la meta che conta, ma il viaggio”. Ad un certo punto della serie, verrebbe quasi da chiedersi - scusatemi per la frase delirante che seguirà tra poco: “E se il viaggio alla ricerca del samurai che profuma di girasoli fosse esso stesso il samurai che profuma di girasoli?” Circa verso metà della serie, appare chiaro che nessuno dei tre protagonisti vuole veramente portare a termine questo viaggio, men che meno Fuu, e questo perché, per la prima volta in vita loro, i tre ragazzi hanno trovato qualcosa, o meglio qualcuno, per cui valga la pena continuare a vivere.
"Io sono sempre stato solo, è la prima volta che incontro degli amici".
Questo dirà Jin nell’episodio conclusivo della serie. Alla fine del viaggio, ci sarà anche il samurai che profuma di girasoli o forse no, ma poco importa, perché c’è soprattutto la consapevolezza di aver finalmente costruito dei legami forti, destinati a durare per sempre, che neanche l’usura del tempo potrà scalfire. L’epilogo che vede i tre protagonisti prendere tre strade diverse è il senso stesso di “Samurai Champloo”, un continuo viaggiare senza una meta precisa, che, in fondo, è anche il senso della vita stessa e, questo, Shin'ichirō Watanabe ci ha tenuto a precisalo, ancora una volta.
Sei anni dopo aver fatto dono al mondo intero di quel capolavoro senza tempo che è “Cowboy Bebop”, Shin'ichirō Watanabe torna alla regia, in collaborazione con l’ormai defunto studio d’animazione Manglobe, di un’opera inedita a soggetto originale, che avrebbe poi ispirato un manga di scarso successo, “Samurai Champloo”. Dalla parola del dialetto di Okinawa "chanpurū", che vuol dire mischiare o fondere, “Samurai Champloo” si propone allo spettatore come anime composto quasi interamente da puntate autoconclusive, proprio come il precedente “Cowboy Bebop”, i cui protagonisti, Mugen e Jin, sono come lo ying e lo yang, al centro di una dicotomia perfetta spezzata dalla presenza femminile necessaria ed essenziale della giovane Fuu.
La storia è ambientata in Giappone, in un immaginario periodo Edo, che copre il periodo storico che va dal 1603 al 1868. In quest’epoca ancora fortemente connotata dalla presenza di samurai, troviamo i nostri grandi protagonisti: Mugen, un rozzo e trasandato guerriero vagabondo che viene dalle isole Ryūkyū, il cui stile di combattimento richiama l’anacronistica break dance afroamericana e ha motivi di somiglianza con la capoeira; Jin, un calmo e misterioso ronin, che combatte utilizzando il tipico stile kenjutsu dei samurai. Questi due feroci spadaccini incrociano le strade tra loro e con Fuu, una giovane cameriera di appena quindici anni, che li salva dalla loro esecuzione quando i due vengono arrestati dopo aver preso parte ad un violento scontro. Fuu convince i due giovani viandanti ad aiutarla a trovare il misterioso "samurai che profuma di girasoli" e, così, la loro lunga e mitica epopea verso una meta dai connotati indistinti ha inizio.
L’essenza dell’opera diretta da Watanabe risiede tutta in una sola parola, Champloo, intesa appunto col significato di mischiare. “Samurai Champloo” è la grande fusione di elementi che sembrano appartenere a poli opposti e intangibili, ma che, nell’arco delle ventisei puntate, diventano un tutt’uno fitto e inseparabile. All’ambientazione perfettamente in linea con il periodo che fa da sfondo alle vicende dei protagonisti, ovvero il Periodo Edo, fanno da contraltare alcuni elementi fortemente anacronistici per l’epoca, tanto da suscitare lo sdegno di alcuni spettatori. Su tutti, sicuramente, la forte presenza di musica di chiaro stampo hip-hop. Fat Jon, Nujabes, Tsutchie e Force of Nature formano una squadra di prim’ordine, che con le loro melodie contemporanee riescono a coinvolgere pienamente lo spettatore, consapevole di star assistendo alla fusione di due mondi che non c’entrano niente l’uno con l’altro, ma che stanno terribilmente bene insieme. Ed è proprio il comparto musicale, impreziosito dalla voce dolce e carezzevole di MINMI, a rappresentare uno dei grandi punti di forza dell’intera opera, senza il quale “Samurai Champloo” non sarebbe potuto esistere nella sua magnificenza. Onestamente, è stata proprio la presenza di musiche così belle ed evocative a spingermi verso una valutazione così alta dell’anime, a riprova del fatto che un ottimo, in questo caso eccezionale, comparto musicale può cambiare le sorti di qualsiasi opera. “Samurai Champloo” è anche la fusione di ordine e pazzia, perché se è vero che la serie segue un filo rosso abbastanza distinguibile, ci sono alcuni episodi, in particolar modo il 22 e il 23, in cui sembra ed effettivamente va a farsi benedire ogni senso logico. Ed è incredibile come, anche in questo caso, l’elemento follia si sposi bene con quello ordinario, a maggior ragione quando il primo si colloca agli sgoccioli della serie, poco prima dell’incerto finale, come a voler dare il tempo allo spettatore di prendere un bel respiro prima di immergersi verso l’atteso epilogo.
Ma nulla di quanto esaminato fino ad ora incarna meglio l’idea della fusione, della mescolanza, come i tre protagonisti. Mugen è un impulsivo, uno che agisce senza pensarci due volte. Quando il pericolo chiama lui risponde sempre presente. Ha profondamente in odio l’autorità, per questo motivo non ci sarebbe nessun problema nel definirlo un anarchico. In un passato non troppo lontano, Mugen è stato tradito da un amico, per questo non sembra fidarsi di nessuno, se non di sé stesso e della spada che porta sempre con sé. In realtà, poco altro si sa del suo passato, quasi completamente avvolto dalle tenebre, e questo discorso vale anche per gli altri due protagonisti, in particolar modo per l’occhialuto samurai. A differenza di Mugen, Jin è un tipo metodico, attento, dal sangue freddo, che conta sempre fino a dieci prima di agire. Da buon samurai, Jin è dotato di grande orgoglio e di un cuore buono e gentile, tanto da prendersi a cuore le sorti di una ragazza costretta a vendere il proprio corpo per ripagare i debiti del marito. Jin è accusato di aver ucciso il maestro del dojo a cui apparteneva e, per questo motivo, deve affrontare l’ira dei suoi discepoli. Anche lui, come Mugen, ha come migliori amiche le due spade da cui non si separa mai. Infine, c’è la dolce e gentile Fuu, un’ex cameriera che viaggia sempre in compagnia di Momo, il suo simpatico scoiattolo volante. La ragazza è chiamata a fare da balia a questi due samurai così diversi tra di loro e che, sin dal primo episodio, si promettono rivalità eterna. In realtà, è proprio Fuu a coinvolgere i due ragazzi nella ricerca del leggendario “samurai che profuma di girasoli”, sulla cui identità si sa ben poco, se non che, come suggerisce il nome, profuma di girasoli. Proprio il nome del samurai rivela molto sulla natura del viaggio che il trio sta compiendo, perché, come molti certamente sapranno, in realtà, i girasoli non profumano per niente. L’ossimorico nome del samurai rende quanto mai incerto il viaggio, alla cui meta potrebbe non esserci nulla o, comunque, ciò che non ci si aspettava di trovare. E, in fondo, è proprio questo il punto. “Samurai Champloo” incarna alla perfezione il detto “non è la meta che conta, ma il viaggio”. Ad un certo punto della serie, verrebbe quasi da chiedersi - scusatemi per la frase delirante che seguirà tra poco: “E se il viaggio alla ricerca del samurai che profuma di girasoli fosse esso stesso il samurai che profuma di girasoli?” Circa verso metà della serie, appare chiaro che nessuno dei tre protagonisti vuole veramente portare a termine questo viaggio, men che meno Fuu, e questo perché, per la prima volta in vita loro, i tre ragazzi hanno trovato qualcosa, o meglio qualcuno, per cui valga la pena continuare a vivere.
"Io sono sempre stato solo, è la prima volta che incontro degli amici".
Questo dirà Jin nell’episodio conclusivo della serie. Alla fine del viaggio, ci sarà anche il samurai che profuma di girasoli o forse no, ma poco importa, perché c’è soprattutto la consapevolezza di aver finalmente costruito dei legami forti, destinati a durare per sempre, che neanche l’usura del tempo potrà scalfire. L’epilogo che vede i tre protagonisti prendere tre strade diverse è il senso stesso di “Samurai Champloo”, un continuo viaggiare senza una meta precisa, che, in fondo, è anche il senso della vita stessa e, questo, Shin'ichirō Watanabe ci ha tenuto a precisalo, ancora una volta.