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Attenzione: la recensione contiene spoiler

"Le favole esistono, è il lieto fine che manca" (M. Badiale)

Nella mia esperienza di serie e film animati sto iniziando a maturare l'idea che Mamoru Oshii sia il mio autore e regista preferito. Da "Beautiful Dreamer" a "Tenshi no Tamago", passando per "Ghost in the Shell", a mio avviso ha sfornato o partecipato alla realizzazione di veri e propri capolavori dell'animazione e, probabilmente, con "Jin-Roh" è riuscito a sublimarsi in un affascinante film distopico che sembra strizzare l'occhio sia ai classici spy-action movie occidentali sia alle favole d'amore dalle tinte cupe e fosche, che conducono a un'amarissima riflessione sull'esistenza e sulla natura dell'uomo.

"L’inferno si trova qui, dentro la testa" (dal film "L'organo genocida" - 2017, tratto dall'opera di Project Itoh)

Spero di non far inorridire chi ha apprezzato il film in recensione, ma come struttura e impostazione ho trovato alcune somiglianze tra "Jin-Roh" e il successivo (e meno pregiato) "L'organo genocida". Entrambi si contestualizzano in un determinato periodo storico, rivisitato per creare una trama action con risvolti filosofico-introspettivi di gran rilievo.
Se il film più recente prende spunto dal terrorismo internazionale e dalle contromisure messe in atto dal controspionaggio degli Stati "occidentali", "Jin-Roh" fa scoprire allo spettatore un Giappone sconosciuto e distopico degli anni '60, che cerca di rinascere dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale attraverso un boom economico che crea un benessere non distribuito socialmente e ottenuto attraverso corpose riforme impopolari, che creano malcontento e ribellioni sempre più massicce.
In una Tokyo teatro di violenti scontri tra ribelli e forze di polizia, tra cui il corpo scelto speciale (denominato DIME), che gode di un'autonomia militare maggiore rispetto alla polizia e all'esercito, si consuma il dramma di una lotta cruda, brutale e senza esclusione di colpi con i ribelli che agiscono con azioni paramilitari e organizzate, avvalendosi anche di donne e bambini, chiamati "cappuccetti rossi", per il trasporto di armi ed esplosivi alle varie cellule dei ribelli.
Durante un'operazione dei reparti speciali volta a bloccare un'operazione organizzata dei ribelli, l'agente speciale Kazui Fuze esita a sparare a una ragazzina che trasporta esplosivo, e quest'ultima si lascia esplodere davanti ai suoi occhi, restando leggermente ferito fisicamente, ma psicologicamente molto segnato dalla brutalità di una vera e propria battaglia "fratricida", trattandosi di scontri da guerra civile.
L'episodio segna l'incipit di una trama ricca di colpi di scena, in cui "eros" e "thanatos" vengono bilanciati in modo sapiente, anche e soprattutto attraverso l'allegoria della celeberrima fiaba di "Cappuccetto Rosso", che viene utilizzata per dare un significato cupo e disilluso sulla natura umana e sulle interazioni tra gli individui.

"Homo homini lupus (est)" (T. Hobbes)

All'interno del corpo scelto della DIME è presente un nucleo "non ufficiale" e parallelo di agenti definiti in gergo "Jin-Roh" ("uomini-lupo"), come una sorta di gruppo autonomo di controspionaggio che cerca di avversare gli intrighi più o meno evidenti e finalizzati allo scioglimento della DIME in favore dei corpi di polizia scelta, essendo ritenuta ormai obsoleta per lo scopo per il quale era stata fondata. E l'incidente accaduto all'agente Fuze diventa l'alibi per generare un vero e proprio complotto contro la DIME, strumentalizzando l'agente incappato in una sorta di apparente "obiezione di coscienza".

Dopo Chales Perrault, i fratelli Grimm e Italo Calvino (tra i tanti), Mamoru Oshii prova a utilizzare con il suo originalissimo stile la favola di Cappuccetto Rosso per proiettare sulla trama di "Jin-Roh" la sua cupa weltanschaaung sull'esistenza umana, tormentata da un pessimismo senza rimedio, in cui l'uomo, seppur mosso dalle più nobili intenzioni, non si può sottrarre all'ineluttabile visione "istintuale" e "cattiva" della natura umana, disseminando i dialoghi tra i personaggi di frasi molto emblematiche della sua visione, che sembra riassumibile nell'aforisma citato di Hobbes.
C'è poco da commentare: la natura umana è egoista e le azioni dell'uomo sono determinate dall'istinto di sopravvivenza e, soprattutto, da quello di sopraffazione. Non c'è amore nelle relazioni umane e l'uomo interagisce coi suoi simili solo in virtù di reciproche concessioni di interesse e timore reciproco.
Una visione molto pessimistica che trova riscontro in una pletora di indizi disseminati nei dialoghi tra i personaggi:
"Tutti conosciamo la versione di Cappuccetto Rosso e nessuno conosce quella del lupo. Forse ci parlerebbe di solitudine e di orgoglio, di lune favolose e di boschi cancellati dagli uomini".
"Noi non siamo uomini travestiti da cani. Siamo lupi travestiti da esseri umani".
"Provare incubi per le proprie nefandezze è sbirciare attraverso l'uscio della coscienza".

Ma il capolavoro è il finale, in cui M. Oshii e il regista (suo assistente) Okiura creano, in un crescendo di tensione, un momento di una intensità ed emotività in cui lo stesso protagonista, l'imperturbabile agente speciale K. Fuze, nonché uno degli "uomini lupo", dimostra nella sua espressione trasfigurata dal dolore tutta la drammaticità e l'umanità del momento e del profondo dissidio interiore tra l'adempimento del "dovere" e i sentimenti che nutre nei confronti di Kai, la persona la cui sorte dipende proprio dalla sua azione, ahimè letale.
"Non volevo nient'altro che un posto nel tuo cuore. Volevo qualcuno che si ricordasse di me!", afferma la vittima in un momento di composta disperazione tra le braccia del suo carnefice.
"E il lupo divorò Cappuccetto Rosso"... il lieto fine della possibile fiaba non si avvera, e resta solo la cupa disperazione e la consapevolezza delle tenebre dell'animo umano, con l'immagine finale del libro delle favole regalato da Kai, la ragazza "cappuccetto rosso", all'agente Fuze, gettato in una pozzanghera nel luogo dell'esecuzione sommaria.

Pura e brutale poesia, per una regia che nonostante il tempo trascorso dalla produzione (1999) resta comunque molto apprezzabile, tecnicamente semplice ma adeguata e di effetto per il tipo di storia narrata, con inquadrature fisse sui visi dei protagonisti. Pregevoli anche le riprese in soggettiva nelle scene di azione, con animazioni fluide. Il chara design non mi ha fatto impazzire per il suo stile piuttosto piatto e non dettagliato ma comunque molto realistico, quasi disegnato con uno stile che sembra frutto della tecnica del rotoscopio piuttosto che con il classico e irrealistico stile degli anime cui lo spettatore è abituato.
Degni di nota i fondali e i colori cupi e spenti che tendono a trasmettere l'atmosfera "pesante" della trama.

"Jin-Roh" è a mio avviso un capolavoro che si avvicina alla perfezione e che merita una visione anche e soprattutto per come è stata congegnata la trama, una storia di fantasia per gli adulti disillusi; in fondo, "sempre, in ogni fiaba, c'è una voce che piange in una torre" (F. Caramagna)