Recensione
Trigun
8.5/10
“La vita è un'insegna luminosa che brilla da lontano.”
Precisamente nello stesso anno in cui, su TV Tokyo, veniva mandato in onda il grande capolavoro targato Shin'ichirō Watanabe, “Cowboy Bebop”, sulla medesima rete televisiva veniva trasmessa un’altra grande opera che avrebbe segnato l’infanzia di tantissimi giovani spettatori di tutto il mondo, “Trigun”, diretta da Satoshi Nishimura. Due serie televisive animate che, soprattutto nel bene ma anche nel male, hanno segnato in maniera indelebile il genere fantascientifico legato alla produzione anime e consacrato gli anni ’90 come periodo di enorme fioritura dell’animazione giapponese.
La storia è ambientata su un pianeta sul quale l’uomo ha traslocato, per riuscire a sopravvivere dopo una grande catastrofe che ha colpito la Terra. Il protagonista è Vash The Stampede, super ricercato accompagnato da una tetra aura di distruzione: dopo il suo passaggio, infatti, interi villaggi vengono rasi al suolo, ma senza che possano essere riscontrate delle vittime. La compagnia di assicurazioni Bernardelli, costretta a pagare diversi milioni di doppi dollari per le continue ricostruzioni e riparazioni, decide di inviare due agenti investigative alla ricerca di questa costante minaccia al portafoglio aziendale, Meryl Stryfe e Milly Thompson. Quando lo trovano, però, le due ragazze scoprono che Vash è in realtà una persona gentile e generosa, ben diversa dal mostro che si aspettavano, e così intraprendono un lungo viaggio durante il quale non c’è mai un attimo di tregua, e la noia deve fare quotidianamente spazio alla vivacità e al movimento.
Pur potendo contare su dei buoni comprimari, uno in particolar modo su cui mi soffermerò in seguito, “Trigun” deve tutto al suo protagonista e mattatore assoluto, Vash “Il Tifone Umanoide” The Stampede. In un’ambientazione di chiaro stampo cyber-western, dove si possono ammirare deserti aridi e dune di vasta estensione, troviamo il nostro eccentrico Vash, col suo cappotto rosso, i capelli biondi a spazzola e una pistola grigia di notevoli dimensioni nella mano destra. Sul suo conto girano tante voci discordanti e la sua identità è avvolta nel mistero, almeno all’inizio, ma una cosa è certa: dove passa lui, tutto finisce con l’essere distrutto. Questo gli ha permesso di “guadagnarsi” l’appellativo di “Tifone Umanoide” e una taglia di sessanta miliardi di doppi dollari - la valuta di questo pianeta che non è la Terra, e gode della luce, odierna e notturna, di tanti soli e diverse lune. Come spesso accade, però, la realtà è ben lontana dalla fantasia, e Vash, a differenza di ciò che si dice in giro, è un uomo dal cuore buono e compassionevole, per quanto donnaiolo incallito e gran bevitore. Il suo carattere spesso poco serio e irriverente e il mistero che lo avvolge lo rendono il protagonista perfetto di una storia avvincente e complessa, che all’inizio si serve di episodi autoconclusivi - da qui anche il collegamento immediato con “Cowboy Bebop”, che però si mantiene sempre sulla stessa falsariga per tutta la sua durata -, necessari all’introduzione dei personaggi, e poi spicca il volo raccontando, una rivelazione alla volta, la storia di Vash, e svelando i reali sentimenti e i principi che animano il suo cuore e muovono le sue azioni.
“Nessuno di noi ha il diritto di togliere la vita agli altri, nessuno, non importa chi sia, nessuno può arrogarsi un tale diritto, perché tutti, tutti noi, abbiamo un futuro che ci attende.”
Seppur pronunciata da Meryl, questa frase è quella che meglio racchiude l’essenza della serie e incarna il principio guida di Vash. Quel che si dice su di lui, almeno in parte, è vero: la stragrande maggioranza dei villaggi o delle città che egli “onora” della sua presenza finisce con l’andare incontro alla devastazione più assoluta, eppure non si riscontrano mai delle vittime. Questo perché Vash, pistolero dal passato ignoto che sembra vagare senza una meta precisa, “gode” di una caratteristica peculiare: attirare su di sé ogni tipo di sventura. Dove c’è lui accade qualcosa, vero, ma non per sua colpa, anzi, lui è il martire che ogni volta cerca di salvare quante più vite umane possibile, ma finisce costantemente con l’essere disprezzato da tutti coloro che non conoscono la realtà dei fatti, come invece impareranno a conoscerla le due assicuratrici, Meryl e Milly, e il mitico reverendo Nicholas D. Wolfwood. Insieme, lui e Vash formano un duo perfetto, non soltanto per la chimica e l’affiatamento - entrambi sono degli ottimi bevitori e dei pistoleri di grande fama -, ma anche e soprattutto per la loro sostanziale diversità di vedute su temi delicati come la vita e la morte. Wolfwood, pur essendo un uomo di Chiesa, non si crea problemi ad uccidere quando necessario, Vash, invece, è un fanatico della giustizia, che preferirebbe farsi ammazzare piuttosto che ammazzare egli stesso. Questo è il grande principio che lo anima e che ripete a gran voce in diverse occasioni, risultando in alcuni frangenti anche ripetitivo e melenso. Durante i loro sconti ideali, Vash e Wolfwood esprimono le proprie ragioni, sta allo spettatore scegliere per chi parteggiare, perché, in fin dei conti, non esiste una scelta giusta e una sbagliata, esistono semplicemente diversi modi di approcciare alla vite, e di rimbalzo anche alla morte. D’altro canto, pur nella loro antitesi, Vash e Nicholas aspirano alla medesima cosa: “giorni sereni in luogo tranquillo, in cui non ci siano guerre, niente saccheggi e niente omicidi, un posto in cui gli uomini possano vivere davvero come uomini”, magari in compagnia della donna amata, perché l’amore è e resta il più forte dei sentimenti.
“Gli uomini non sono nati per uccidere, ma per amare.”
Come vivere, dunque, quel “futuro che ci attende”? Nel modo che più ci aggrada, indipendentemente da quel che è stato il nostro passato, costellato da buone azioni o da orribili malefatte, perché, come dice spesso Vash, “il biglietto per il futuro è sempre bianco”. “Siamo noi stessi a dover scegliere il motivo per cui viviamo” e ciò che abbiamo fatto in passato conta fino ad un certo punto, ciò che conta di più è come scegliamo di vivere il presente, abbracciando il bene o parteggiando per il male. In questo, per quel che mi riguarda, risiede la grande differenza con “Cowboy Bebop” - già citato altre volte in questa recensione -, in cui il passato dei protagonisti, per i protagonisti stessi, pesa come un macigno, condizionando inevitabilmente anche il futuro. Questo, ovviamente, rende “Cowboy Bebop” più crudo e reale a differenza di “Trigun”, che è invece molto più ottimista e speranzoso nel messaggio che lancia.
Per essere un’opera del 1998, oserei dire che regge discretamente bene il peso degli anni, seppur, in alcuni episodi, si noti un leggero calo tecnico e registico. Le puntate e la storia in sé non sono perfette, anche perché alcuni personaggi, quello di Legato Bluesummers in particolar modo, restano avvolti nel mistero, e a certe domande non viene fornita la risposta adeguata, il che genera delle lacune per colmare le quali, forse, sarebbe opportuno leggere il manga. Ciò detto, “Trigun” è e rimane un’esperienza bellissima da vivere tutta d’un fiato, resa tale anche dal lavoro eccezionale di Tsuneo Imahori, che ha impreziosito l’anime con delle musiche stupende.
Onestamente, non ho idea di come possa essere il recente reboot del 2023, “Trigun STAMPEDE”, so soltanto che “Trigun” merita di essere visto almeno una volta nella vita, perlomeno dai fan del genere fantascientifico.
Precisamente nello stesso anno in cui, su TV Tokyo, veniva mandato in onda il grande capolavoro targato Shin'ichirō Watanabe, “Cowboy Bebop”, sulla medesima rete televisiva veniva trasmessa un’altra grande opera che avrebbe segnato l’infanzia di tantissimi giovani spettatori di tutto il mondo, “Trigun”, diretta da Satoshi Nishimura. Due serie televisive animate che, soprattutto nel bene ma anche nel male, hanno segnato in maniera indelebile il genere fantascientifico legato alla produzione anime e consacrato gli anni ’90 come periodo di enorme fioritura dell’animazione giapponese.
La storia è ambientata su un pianeta sul quale l’uomo ha traslocato, per riuscire a sopravvivere dopo una grande catastrofe che ha colpito la Terra. Il protagonista è Vash The Stampede, super ricercato accompagnato da una tetra aura di distruzione: dopo il suo passaggio, infatti, interi villaggi vengono rasi al suolo, ma senza che possano essere riscontrate delle vittime. La compagnia di assicurazioni Bernardelli, costretta a pagare diversi milioni di doppi dollari per le continue ricostruzioni e riparazioni, decide di inviare due agenti investigative alla ricerca di questa costante minaccia al portafoglio aziendale, Meryl Stryfe e Milly Thompson. Quando lo trovano, però, le due ragazze scoprono che Vash è in realtà una persona gentile e generosa, ben diversa dal mostro che si aspettavano, e così intraprendono un lungo viaggio durante il quale non c’è mai un attimo di tregua, e la noia deve fare quotidianamente spazio alla vivacità e al movimento.
Pur potendo contare su dei buoni comprimari, uno in particolar modo su cui mi soffermerò in seguito, “Trigun” deve tutto al suo protagonista e mattatore assoluto, Vash “Il Tifone Umanoide” The Stampede. In un’ambientazione di chiaro stampo cyber-western, dove si possono ammirare deserti aridi e dune di vasta estensione, troviamo il nostro eccentrico Vash, col suo cappotto rosso, i capelli biondi a spazzola e una pistola grigia di notevoli dimensioni nella mano destra. Sul suo conto girano tante voci discordanti e la sua identità è avvolta nel mistero, almeno all’inizio, ma una cosa è certa: dove passa lui, tutto finisce con l’essere distrutto. Questo gli ha permesso di “guadagnarsi” l’appellativo di “Tifone Umanoide” e una taglia di sessanta miliardi di doppi dollari - la valuta di questo pianeta che non è la Terra, e gode della luce, odierna e notturna, di tanti soli e diverse lune. Come spesso accade, però, la realtà è ben lontana dalla fantasia, e Vash, a differenza di ciò che si dice in giro, è un uomo dal cuore buono e compassionevole, per quanto donnaiolo incallito e gran bevitore. Il suo carattere spesso poco serio e irriverente e il mistero che lo avvolge lo rendono il protagonista perfetto di una storia avvincente e complessa, che all’inizio si serve di episodi autoconclusivi - da qui anche il collegamento immediato con “Cowboy Bebop”, che però si mantiene sempre sulla stessa falsariga per tutta la sua durata -, necessari all’introduzione dei personaggi, e poi spicca il volo raccontando, una rivelazione alla volta, la storia di Vash, e svelando i reali sentimenti e i principi che animano il suo cuore e muovono le sue azioni.
“Nessuno di noi ha il diritto di togliere la vita agli altri, nessuno, non importa chi sia, nessuno può arrogarsi un tale diritto, perché tutti, tutti noi, abbiamo un futuro che ci attende.”
Seppur pronunciata da Meryl, questa frase è quella che meglio racchiude l’essenza della serie e incarna il principio guida di Vash. Quel che si dice su di lui, almeno in parte, è vero: la stragrande maggioranza dei villaggi o delle città che egli “onora” della sua presenza finisce con l’andare incontro alla devastazione più assoluta, eppure non si riscontrano mai delle vittime. Questo perché Vash, pistolero dal passato ignoto che sembra vagare senza una meta precisa, “gode” di una caratteristica peculiare: attirare su di sé ogni tipo di sventura. Dove c’è lui accade qualcosa, vero, ma non per sua colpa, anzi, lui è il martire che ogni volta cerca di salvare quante più vite umane possibile, ma finisce costantemente con l’essere disprezzato da tutti coloro che non conoscono la realtà dei fatti, come invece impareranno a conoscerla le due assicuratrici, Meryl e Milly, e il mitico reverendo Nicholas D. Wolfwood. Insieme, lui e Vash formano un duo perfetto, non soltanto per la chimica e l’affiatamento - entrambi sono degli ottimi bevitori e dei pistoleri di grande fama -, ma anche e soprattutto per la loro sostanziale diversità di vedute su temi delicati come la vita e la morte. Wolfwood, pur essendo un uomo di Chiesa, non si crea problemi ad uccidere quando necessario, Vash, invece, è un fanatico della giustizia, che preferirebbe farsi ammazzare piuttosto che ammazzare egli stesso. Questo è il grande principio che lo anima e che ripete a gran voce in diverse occasioni, risultando in alcuni frangenti anche ripetitivo e melenso. Durante i loro sconti ideali, Vash e Wolfwood esprimono le proprie ragioni, sta allo spettatore scegliere per chi parteggiare, perché, in fin dei conti, non esiste una scelta giusta e una sbagliata, esistono semplicemente diversi modi di approcciare alla vite, e di rimbalzo anche alla morte. D’altro canto, pur nella loro antitesi, Vash e Nicholas aspirano alla medesima cosa: “giorni sereni in luogo tranquillo, in cui non ci siano guerre, niente saccheggi e niente omicidi, un posto in cui gli uomini possano vivere davvero come uomini”, magari in compagnia della donna amata, perché l’amore è e resta il più forte dei sentimenti.
“Gli uomini non sono nati per uccidere, ma per amare.”
Come vivere, dunque, quel “futuro che ci attende”? Nel modo che più ci aggrada, indipendentemente da quel che è stato il nostro passato, costellato da buone azioni o da orribili malefatte, perché, come dice spesso Vash, “il biglietto per il futuro è sempre bianco”. “Siamo noi stessi a dover scegliere il motivo per cui viviamo” e ciò che abbiamo fatto in passato conta fino ad un certo punto, ciò che conta di più è come scegliamo di vivere il presente, abbracciando il bene o parteggiando per il male. In questo, per quel che mi riguarda, risiede la grande differenza con “Cowboy Bebop” - già citato altre volte in questa recensione -, in cui il passato dei protagonisti, per i protagonisti stessi, pesa come un macigno, condizionando inevitabilmente anche il futuro. Questo, ovviamente, rende “Cowboy Bebop” più crudo e reale a differenza di “Trigun”, che è invece molto più ottimista e speranzoso nel messaggio che lancia.
Per essere un’opera del 1998, oserei dire che regge discretamente bene il peso degli anni, seppur, in alcuni episodi, si noti un leggero calo tecnico e registico. Le puntate e la storia in sé non sono perfette, anche perché alcuni personaggi, quello di Legato Bluesummers in particolar modo, restano avvolti nel mistero, e a certe domande non viene fornita la risposta adeguata, il che genera delle lacune per colmare le quali, forse, sarebbe opportuno leggere il manga. Ciò detto, “Trigun” è e rimane un’esperienza bellissima da vivere tutta d’un fiato, resa tale anche dal lavoro eccezionale di Tsuneo Imahori, che ha impreziosito l’anime con delle musiche stupende.
Onestamente, non ho idea di come possa essere il recente reboot del 2023, “Trigun STAMPEDE”, so soltanto che “Trigun” merita di essere visto almeno una volta nella vita, perlomeno dai fan del genere fantascientifico.