Recensione
Recensione di Locke Cole
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Una parola risulta efficacemente calzante nel sussumere sotto di sé tutta l'abissale vuotezza della quarta trasposizione animata dei lavori letterari di Nisio Isin, e questa è "vanagloria".
Sopra alle rovine di un'animazione a tal punto dimentica della propria destinazione in seno all'arte da doversi limitare, al massimo delle proprie capacità, ad imitare (giacchè non è in grado di produrre) lo sperimentalismo in un'effimera ombra, un altro capitolo dei "Monogatari" s'incarna per celebrare ancora una volta la propria insanabile sciocchezza.
Trascorse nell'inutilità la seconda e la terza serie, l'una volta ad esplorare le morbosità della perversione e l'altra a ribadire eventi già noti, riprende il complesso dei "Monogatari" con questa "second season", la quale ha perlomeno la decenza di proseguire la vicenda dell'anormale quotidianità di Araragi Koyomi e delle innumerevoli sue spasimanti.
L'opera è divisa in cinque archi, attraversati da cronologie spezzate e nei quali, al solito, non succede poi molto.
Il primo verte sulla prosperosa e (così dicono) brillante studentessa Hanekawa e la sua perenne incapacità di stare al mondo. Seppur sia consolante che all'unico personaggio che non soffre di psicopatie nell'intera serie si conceda tanta scena, è anche vero che di un simile arco non c'era alcun bisogno, non aggiungendo sostanzialmente niente alla già ribadita vicenda della ragazza, la quale viene logorroicamente ribadita, declinata nuovamente e conclusa (sperabilmente in via definitiva).
Unica soddisfazione è l'assenza del motore erotico della situazione, il (in questo arco, formale) protagonista dei "Monogatari", l'ex-vampiro Araragi, la cui mancanza attenua la generale ninfomania delle pulzelle in scena, senza tuttavia per questo far calare l'abuso dell'improbabile e inopportuna fotografia che domina l'opera.
Il secondo arco non merita nessuna considerazione, non avendo senso né utilità alcuna. L'unica sua funzione è d'introdurre blandamente il quarto, dove le vicende di Hachikuji giungono al termine.
In quest'ultimo il ritmo fra tensioni ed excursus distensivi saranno ben dosate, per quanto l'esasperazione della scenografia nella sua vanità di pseudo-sperimentalismo rovini irrimediabilmente le atmosfere, come pure fa l'esaltazione del patetismo nei toni, il quale verrà lasciato sfogarsi sino alla stucchevolezza, certo inopportunamente stridente con quel senso di distaccata freddezza che, almeno questo, la serie riesce sempre a trasmettere.
Infine il terzo e il quinto arco chiudono, in maniera sorprendentemente piacevole, la "second season": attraverso una narrazione d'inganni si dipanano specularmente le vicende di due personaggi tratti dalle spaventose tenebre di "Nisemonogatari", Sengoku e Kaiki, che, punti d'osservazione dei rispettivi archi, offrono alla storia un'accattivante prospettiva, retta da un lato da un accorto intreccio di falsità a strutturare la vicenda e dall'altro dal grande carisma del protagonista dell'arco finale. E' questo quanto più desta rabbia dei "Monogatari", la loro reale capacità di produrre qualcosa di buono, potenzialità che viene alla prima possibilità dissipata in intenti meno meritevoli.
E' inutile spendere ulteriori parole sul perché la Shaft sia biasimevole nel suo operare e su quanto sia pernicioso il male che l'animazione da essa patisce. Se i "Monogatari" si divertono a costruire storie di menzogne e illusioni è perché essi stessi non sono che l'ombra di un'arte che l'animazione di oggi non è in grado di essere, nient'altro che l'elogio di una protervia che persiste nella sua inerzia, mutuando le stesse istanze ad nauseam, il tutto celato dalla loro leggerezza, che a stento nasconde questa povertà d'ingegno.
Nella propria radicale e genuina vuotezza, la serie dei "Monotagatari" continua ad ostentare la sua vanagloriosa arroganza, nel raffazzonato tentativo di rammendare la tela del suo caleidoscopico sembiante stesa sopra al cuore della propria nullità.
Sopra alle rovine di un'animazione a tal punto dimentica della propria destinazione in seno all'arte da doversi limitare, al massimo delle proprie capacità, ad imitare (giacchè non è in grado di produrre) lo sperimentalismo in un'effimera ombra, un altro capitolo dei "Monogatari" s'incarna per celebrare ancora una volta la propria insanabile sciocchezza.
Trascorse nell'inutilità la seconda e la terza serie, l'una volta ad esplorare le morbosità della perversione e l'altra a ribadire eventi già noti, riprende il complesso dei "Monogatari" con questa "second season", la quale ha perlomeno la decenza di proseguire la vicenda dell'anormale quotidianità di Araragi Koyomi e delle innumerevoli sue spasimanti.
L'opera è divisa in cinque archi, attraversati da cronologie spezzate e nei quali, al solito, non succede poi molto.
Il primo verte sulla prosperosa e (così dicono) brillante studentessa Hanekawa e la sua perenne incapacità di stare al mondo. Seppur sia consolante che all'unico personaggio che non soffre di psicopatie nell'intera serie si conceda tanta scena, è anche vero che di un simile arco non c'era alcun bisogno, non aggiungendo sostanzialmente niente alla già ribadita vicenda della ragazza, la quale viene logorroicamente ribadita, declinata nuovamente e conclusa (sperabilmente in via definitiva).
Unica soddisfazione è l'assenza del motore erotico della situazione, il (in questo arco, formale) protagonista dei "Monogatari", l'ex-vampiro Araragi, la cui mancanza attenua la generale ninfomania delle pulzelle in scena, senza tuttavia per questo far calare l'abuso dell'improbabile e inopportuna fotografia che domina l'opera.
Il secondo arco non merita nessuna considerazione, non avendo senso né utilità alcuna. L'unica sua funzione è d'introdurre blandamente il quarto, dove le vicende di Hachikuji giungono al termine.
In quest'ultimo il ritmo fra tensioni ed excursus distensivi saranno ben dosate, per quanto l'esasperazione della scenografia nella sua vanità di pseudo-sperimentalismo rovini irrimediabilmente le atmosfere, come pure fa l'esaltazione del patetismo nei toni, il quale verrà lasciato sfogarsi sino alla stucchevolezza, certo inopportunamente stridente con quel senso di distaccata freddezza che, almeno questo, la serie riesce sempre a trasmettere.
Infine il terzo e il quinto arco chiudono, in maniera sorprendentemente piacevole, la "second season": attraverso una narrazione d'inganni si dipanano specularmente le vicende di due personaggi tratti dalle spaventose tenebre di "Nisemonogatari", Sengoku e Kaiki, che, punti d'osservazione dei rispettivi archi, offrono alla storia un'accattivante prospettiva, retta da un lato da un accorto intreccio di falsità a strutturare la vicenda e dall'altro dal grande carisma del protagonista dell'arco finale. E' questo quanto più desta rabbia dei "Monogatari", la loro reale capacità di produrre qualcosa di buono, potenzialità che viene alla prima possibilità dissipata in intenti meno meritevoli.
E' inutile spendere ulteriori parole sul perché la Shaft sia biasimevole nel suo operare e su quanto sia pernicioso il male che l'animazione da essa patisce. Se i "Monogatari" si divertono a costruire storie di menzogne e illusioni è perché essi stessi non sono che l'ombra di un'arte che l'animazione di oggi non è in grado di essere, nient'altro che l'elogio di una protervia che persiste nella sua inerzia, mutuando le stesse istanze ad nauseam, il tutto celato dalla loro leggerezza, che a stento nasconde questa povertà d'ingegno.
Nella propria radicale e genuina vuotezza, la serie dei "Monotagatari" continua ad ostentare la sua vanagloriosa arroganza, nel raffazzonato tentativo di rammendare la tela del suo caleidoscopico sembiante stesa sopra al cuore della propria nullità.