Recensione
“Ken, sei tu, fantastico guerriero,
sceso come un fulmine dal cielo.”
Serializzato in Giappone dal 1983 al 1988 sulla rivista Weekly Shōnen Jump dalla casa editrice Shūeisha ,“Hokuto no Ken”, meglio conosciuto in Italia col nome di “Ken il Guerriero”, è uno di quei manga che ha segnato in maniera inconfutabile il genere shounen, rendendone obbligatorio un confronto per chiunque, dagli anni ’80 in poi, abbia voluto cimentarsi con storie incentrate su questi due elementi cardine: arti marziali e botte da orbi. Oltre a ciò, l’opera di Buronson e Tetsuo Hara ha anche influenzato un’intera generazione di ragazzi, probabilmente anche ragazze, che in compagnia dei propri amici provavano a replicare le tecniche di Ken, colpendo i fantomatici punti di pressione ed esclamando “ti restano solo tre secondi di vita”. In Italia, grazie soprattutto alle serie televisive anime e alla leggendaria sigla scritta da Lucio Macchiarella citata sopra, le gesta di Kenshiro hanno goduto e continuano a godere di enorme fortuna, a riprova dell’immortalità di “Hokuto no Ken” e della sua leggenda.
Siamo alla fine del XX secolo. Il mondo intero è sconvolto dalle esplosioni atomiche. Sulla faccia della Terra, gli oceani sono scomparsi e le pianure hanno preso l'aspetto di desolati deserti. Tuttavia, la razza umana è sopravvissuta. Kenshiro è il successore della Divina Scuola di Hokuto, un'arte marziale letale e spietata, ed è considerato il salvatore della fine del mondo. Sul petto, porta sette cicatrici disposte secondo la costellazione dell'Orsa Maggiore. Attraverso la pressione degli tsubo, punti segreti di pressione disseminati sul corpo umano, Ken condanna i suoi avversari a una morte atroce, provocando l'esplosione dei loro corpi dall'interno. Egli va in cerca dell'amata Yuria, rapita dal crudele Shin, maestro della scuola di arti marziali di Nanto, da sempre rivale di Hokuto. Sul suo cammino, Ken incontra il ladruncolo Bat e una bambina muta, Rin, alla quale ridà la parola tramite la pressione di uno tsubo, e, in loro compagnia, intraprende un viaggio destinato a durare in eterno.
La storia di “Hokuto no Ken” vede il suo momento clou nello scontro definitivo tra Ken e Raoh, che si consuma a cavallo tra i volumi 15 e 16. Da lì in poi, inizia una nuova storia che, per quanto piacevole da leggere, non è minimamente paragonabile al capolavoro rappresentato dai primi sedici volumi. Il manga inizia un po’ in sordina, con alcuni numeri “autoconclusivi”, in cui risulta già chiara l’impostazione della storia e il carattere di Kenshiro, un guerriero con dei valori e dei principi, che segue il suo personale concetto di giustizia e patteggia sempre per i buoni. Il manga di Buronson, in sé, non ha molto di originale; ogni mini-saga segue una sorta di schema preimpostato: viaggio di breve durata – perché il male è sempre dietro l’angolo –, scontri vari con avversari minori e duello con il villain di turno di cui, solitamente, tramite un flashback, si racconta la sua personale storia, che riesce quasi sempre a redimerlo agli occhi del lettore. Ciò che rende speciale “Hokuto no Ken” nella sua interezza, è proprio Kenshiro, oltre ai suoi grandi antagonisti, Raoh su tutti. A differenza di ciò che si potrebbe credere ad un primo impatto, Ken è un uomo dal cuore buono, che odia i prepotenti e, nei loro confronti, mostra una spietatezza senza limiti. Nel suo atteggiamento e nel modo in cui sconfigge i suoi nemici, per manifesta superiorità, Ken è quello che oggi si potrebbe definire un autentico “chad”, ovvero qualcuno che è pienamente conscio dei propri mezzi e non ha timore a farne sfoggio. Ken non solo uccide i suoi nemici, esseri spietati e senza scrupoli, ma, il più delle volte, li umilia completamente e, in questo, si nota l’influenza che l’opera di Buronson ha esercitato su tanti manga successivi, in particolar modo su “Le Bizzarre Avventure di Jojo” di Hirohiko Araki. A suon di cazzotti, però, Ken costruisce anche dei nuovi legami, Rei ne è l’esempio più lampante, e rafforza i vecchi, imponendosi come protagonista duro e crudo per cui è impossibile non fare costantemente il tifo. Ma un grande protagonista non è nulla senza un altrettanto grande antagonista, incarnato dal fratello di Ken, Raoh, un personaggio dalle numerose sfaccettature e l’unico guerriero in grado di far dubitare il lettore della forza di Ken. Quando i due arrivano al duello finale, quello è il momento di climax maggiore dell’intera storia, costruita tutta per arrivare a quel singolo scontro e a quella “tavola finale” da brividi.
Tutto ciò che viene dopo, per quanto resti bello e scorrevole da leggere – il più delle tavole e delle vignette sono mazzate allo stato brado –, come dicevo poc'anzi, non è paragonabile in alcuna maniera alla serie precedente. Ken resta ovviamente come protagonista e baluardo della storia che, però, comincia a reggersi fin troppo su colpi di scena forzati e rivelazioni che sono paragonabili a delle vere e proprie retcon – nel corso di ogni volume praticamente viene scoperta l’esistenza di un fratello o un parente perduto dei personaggi della serie principale –. Privata dei suoi antagonisti e comprimari migliori, la storia perde la sua originale brillantezza, ma non il suo fascino. Le gesta di Ken restano piacevoli da leggere, perché il successore della Divina Scuola di Hokuto è sempre sé stesso, non scende mai a patti con i mutamenti del mondo, che è sì in continua evoluzione ma, in fin dei conti, non cambia mai veramente. Il male persiste in ogni epoca e, per estirparne le radici, serve un eroe come Ken, sempre in prima linea per difendere i più deboli e sconfiggere i cattivi, al fine di rendere il mondo un posto migliore. Se ci sia riuscito o meno, chiaramente, sta a voi scoprirlo, immergendovi a capofitto nella lettura di un manga che ha fatto la storia, merito anche dei disegni accurati e coinvolgenti di Tetsuo Hara, che non mi ha mai fatto penare nella lettura di un combattimento.
Con un’ultima personalissima riflessione vi accompagno verso la conclusione della recensione. Più di ogni altra cosa, credo che “Hokuto no Ken” sia un manga in cui viene data una certa rilevanza agli occhi. Nulla, nell’opera di Buronson e Tetsuo Hara, comunica nello stesso modo in cui riescono a farlo gli occhi. Spesso, infatti, nel corso della storia, si fa riferimento ad un sentimento che traspare dallo sguardo di Ken: la tristezza, da cui, secondo i suoi avversari, egli trarrebbe la sua forza. La tristezza che scaturisce dalla difficoltà della sua missione, se così vogliamo chiamarla, che prevede un contatto continuo con la morte, la quale colpisce indistintamente amici e nemici. La tristezza, quindi, si accompagna ad un’altra emozione: l’odio, quello che compare sul viso di Ken quando ha davanti a sé i criminali della peggior specie, senza i quali il mondo sarebbe un posto più vivibile. Ma negli occhi di Ken c’è spazio anche per i sentimenti positivi, su tutti l’amore, quello che prova nei confronti dei fratelli e della donna amata. Lo sguardo di Ken raccoglie tutti questi sentimenti e li comunica allo spettatore, senza il bisogno di futili parole. Questo, a mio avviso, è il vero capolavoro in cui è riuscito Buronson, il padre di “Ken il Guerriero”.
sceso come un fulmine dal cielo.”
Serializzato in Giappone dal 1983 al 1988 sulla rivista Weekly Shōnen Jump dalla casa editrice Shūeisha ,“Hokuto no Ken”, meglio conosciuto in Italia col nome di “Ken il Guerriero”, è uno di quei manga che ha segnato in maniera inconfutabile il genere shounen, rendendone obbligatorio un confronto per chiunque, dagli anni ’80 in poi, abbia voluto cimentarsi con storie incentrate su questi due elementi cardine: arti marziali e botte da orbi. Oltre a ciò, l’opera di Buronson e Tetsuo Hara ha anche influenzato un’intera generazione di ragazzi, probabilmente anche ragazze, che in compagnia dei propri amici provavano a replicare le tecniche di Ken, colpendo i fantomatici punti di pressione ed esclamando “ti restano solo tre secondi di vita”. In Italia, grazie soprattutto alle serie televisive anime e alla leggendaria sigla scritta da Lucio Macchiarella citata sopra, le gesta di Kenshiro hanno goduto e continuano a godere di enorme fortuna, a riprova dell’immortalità di “Hokuto no Ken” e della sua leggenda.
Siamo alla fine del XX secolo. Il mondo intero è sconvolto dalle esplosioni atomiche. Sulla faccia della Terra, gli oceani sono scomparsi e le pianure hanno preso l'aspetto di desolati deserti. Tuttavia, la razza umana è sopravvissuta. Kenshiro è il successore della Divina Scuola di Hokuto, un'arte marziale letale e spietata, ed è considerato il salvatore della fine del mondo. Sul petto, porta sette cicatrici disposte secondo la costellazione dell'Orsa Maggiore. Attraverso la pressione degli tsubo, punti segreti di pressione disseminati sul corpo umano, Ken condanna i suoi avversari a una morte atroce, provocando l'esplosione dei loro corpi dall'interno. Egli va in cerca dell'amata Yuria, rapita dal crudele Shin, maestro della scuola di arti marziali di Nanto, da sempre rivale di Hokuto. Sul suo cammino, Ken incontra il ladruncolo Bat e una bambina muta, Rin, alla quale ridà la parola tramite la pressione di uno tsubo, e, in loro compagnia, intraprende un viaggio destinato a durare in eterno.
La storia di “Hokuto no Ken” vede il suo momento clou nello scontro definitivo tra Ken e Raoh, che si consuma a cavallo tra i volumi 15 e 16. Da lì in poi, inizia una nuova storia che, per quanto piacevole da leggere, non è minimamente paragonabile al capolavoro rappresentato dai primi sedici volumi. Il manga inizia un po’ in sordina, con alcuni numeri “autoconclusivi”, in cui risulta già chiara l’impostazione della storia e il carattere di Kenshiro, un guerriero con dei valori e dei principi, che segue il suo personale concetto di giustizia e patteggia sempre per i buoni. Il manga di Buronson, in sé, non ha molto di originale; ogni mini-saga segue una sorta di schema preimpostato: viaggio di breve durata – perché il male è sempre dietro l’angolo –, scontri vari con avversari minori e duello con il villain di turno di cui, solitamente, tramite un flashback, si racconta la sua personale storia, che riesce quasi sempre a redimerlo agli occhi del lettore. Ciò che rende speciale “Hokuto no Ken” nella sua interezza, è proprio Kenshiro, oltre ai suoi grandi antagonisti, Raoh su tutti. A differenza di ciò che si potrebbe credere ad un primo impatto, Ken è un uomo dal cuore buono, che odia i prepotenti e, nei loro confronti, mostra una spietatezza senza limiti. Nel suo atteggiamento e nel modo in cui sconfigge i suoi nemici, per manifesta superiorità, Ken è quello che oggi si potrebbe definire un autentico “chad”, ovvero qualcuno che è pienamente conscio dei propri mezzi e non ha timore a farne sfoggio. Ken non solo uccide i suoi nemici, esseri spietati e senza scrupoli, ma, il più delle volte, li umilia completamente e, in questo, si nota l’influenza che l’opera di Buronson ha esercitato su tanti manga successivi, in particolar modo su “Le Bizzarre Avventure di Jojo” di Hirohiko Araki. A suon di cazzotti, però, Ken costruisce anche dei nuovi legami, Rei ne è l’esempio più lampante, e rafforza i vecchi, imponendosi come protagonista duro e crudo per cui è impossibile non fare costantemente il tifo. Ma un grande protagonista non è nulla senza un altrettanto grande antagonista, incarnato dal fratello di Ken, Raoh, un personaggio dalle numerose sfaccettature e l’unico guerriero in grado di far dubitare il lettore della forza di Ken. Quando i due arrivano al duello finale, quello è il momento di climax maggiore dell’intera storia, costruita tutta per arrivare a quel singolo scontro e a quella “tavola finale” da brividi.
Tutto ciò che viene dopo, per quanto resti bello e scorrevole da leggere – il più delle tavole e delle vignette sono mazzate allo stato brado –, come dicevo poc'anzi, non è paragonabile in alcuna maniera alla serie precedente. Ken resta ovviamente come protagonista e baluardo della storia che, però, comincia a reggersi fin troppo su colpi di scena forzati e rivelazioni che sono paragonabili a delle vere e proprie retcon – nel corso di ogni volume praticamente viene scoperta l’esistenza di un fratello o un parente perduto dei personaggi della serie principale –. Privata dei suoi antagonisti e comprimari migliori, la storia perde la sua originale brillantezza, ma non il suo fascino. Le gesta di Ken restano piacevoli da leggere, perché il successore della Divina Scuola di Hokuto è sempre sé stesso, non scende mai a patti con i mutamenti del mondo, che è sì in continua evoluzione ma, in fin dei conti, non cambia mai veramente. Il male persiste in ogni epoca e, per estirparne le radici, serve un eroe come Ken, sempre in prima linea per difendere i più deboli e sconfiggere i cattivi, al fine di rendere il mondo un posto migliore. Se ci sia riuscito o meno, chiaramente, sta a voi scoprirlo, immergendovi a capofitto nella lettura di un manga che ha fatto la storia, merito anche dei disegni accurati e coinvolgenti di Tetsuo Hara, che non mi ha mai fatto penare nella lettura di un combattimento.
Con un’ultima personalissima riflessione vi accompagno verso la conclusione della recensione. Più di ogni altra cosa, credo che “Hokuto no Ken” sia un manga in cui viene data una certa rilevanza agli occhi. Nulla, nell’opera di Buronson e Tetsuo Hara, comunica nello stesso modo in cui riescono a farlo gli occhi. Spesso, infatti, nel corso della storia, si fa riferimento ad un sentimento che traspare dallo sguardo di Ken: la tristezza, da cui, secondo i suoi avversari, egli trarrebbe la sua forza. La tristezza che scaturisce dalla difficoltà della sua missione, se così vogliamo chiamarla, che prevede un contatto continuo con la morte, la quale colpisce indistintamente amici e nemici. La tristezza, quindi, si accompagna ad un’altra emozione: l’odio, quello che compare sul viso di Ken quando ha davanti a sé i criminali della peggior specie, senza i quali il mondo sarebbe un posto più vivibile. Ma negli occhi di Ken c’è spazio anche per i sentimenti positivi, su tutti l’amore, quello che prova nei confronti dei fratelli e della donna amata. Lo sguardo di Ken raccoglie tutti questi sentimenti e li comunica allo spettatore, senza il bisogno di futili parole. Questo, a mio avviso, è il vero capolavoro in cui è riuscito Buronson, il padre di “Ken il Guerriero”.